CONTATORE
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Interviste
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Intervista a Pangea
31 marzo 2021
a cura di Davide Brullo
LO SCRITTORE COME AMABILE DELINQUENTE. DIALOGO CON LEONARDO BONETTI
Non apparteneva a questo mondo, mi pareva lunare, pietrificato dentro diverse infanzie – ha ancora i capelli lunghi, come allora. Era il 2009, a Milano, negli uffici – all’epoca – della Marietti: lui esordiva con un romanzo molto bello, Racconto d’inverno, io con un altro – e tremavo come una spada di fronte al futuro, all’alveare delle possibilità. Parlammo di Tommaso Landolfi, di Tarkovskij, il regista; veniva dai meandri del metal, il suo gruppo, gli Arpia – che esistono dal 1982 –, gode di una solida, sotterranea fama. Straniero alla letteratura, con uno stile arcano, di antico candore, Leonardo Bonetti mi fu subito amico, istituii una fraternità tra esuli, tra solari transufughi. Con Marietti completò il progetto romanzesco – quasi una cattedrale romanica – che comprendeva Racconto di primavera (2010) e Racconto d’estate (2012), mentre dal primo romanzo aveva tratto un disco. In un tempo che pare il multiplo dell’arcano, gli chiesi di tradurre il libro del profeta Daniele: ne fece un’opera lirica, cioè musicale – e una meraviglia che giace, per ciò che ne so. Ci dileguammo sulla morgana di una promessa; Bonetti ha continuato a scrivere, come si deve, in un suo modo latitante all’ovvio – nel 2012, con A libro chiuso pubblica la cosa più bella – raccogliendo elogi (tra i tanti, quelli di Walter Pedullà e Antonio Prete). La sua sorniona inquietudine lo ha portato, cinque anni fa, a firmare un film, Un amore rubato. Percorre le avventure per un destino devoto alle candele, Bonetti: l’ultima è un libro-amuleto, L’isola che non c’era, pubblicato con Il ramo e la foglia edizioni, pieno, come sempre, di figure tra fiamme d’ombra, di agnizioni (“La donnola, sulle prime, resta immobile come a voler perdere l’ultima occasione; ma non si fa in tempo a pensarla che è già via… Il mistero è sempre sotto i nostri occhi, ma a pensarlo non si trattiene. Perché sembra immobile, ma non lo è mai abbastanza”). È un libro fuori tempo, questo, con ruggine d’oro e una incauta fiducia nella narrazione (“Quest’isola non c’era. Non compariva nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto. Né in seguito nelle descrizioni dei mercanti o degli avventurieri che solcavano il Mediterraneo a loro rischio e pericolo”: così comincia, al crocevia dell’avventatezza). Come fosse scritto in margine a un codice medioevale che censisce le diverse morti di Atlantide, sparpagliando il rischio a bocconi, una fame bianca. (d.b.)
Partiamo da qui. Che cos’è il libro? Perché dare forma al libro?
Ho sempre pensato che il libro è già dotato di una sua forma, e che deve essere liberato dalla materia di cui s’è ricoperto nel tempo. Occorre trovarlo, innanzitutto, perché esso esiste già: vive sommerso, nascosto. Il compito dello scrittore si sovrappone allora a quello del curatore, colui che estrae mandorle dal fango e le ripulisce togliendo ciò che vi si è depositato sopra, per traghettarle dall’informe a una forma originaria. È un lavoro da fare nottetempo, furtivamente, come un amabile delinquente che ruba un po’ dell’infanzia del mondo contro il numero e la nevrosi dell’oggi.
Da dove nasce l’isola del tuo libro, da quale ispirazione?
In realtà questo romanzo è legato indissolubilmente a un’altra isola della mia scrittura, e più precisamente un piccolo volume pubblicato nove anni fa, A libro chiuso, sorta di manifesto e meditazione in prosa poetica. In fondo, ogni opera è un’isola, a mio modo di vedere e, al tempo stesso, un mondo in movimento. Perché l’arcipelago della scrittura è fatto di emersioni che rivelano la rotta verso cui stiamo andando. Così che se ci voltiamo e vediamo le nostre isole, i nostri libri, il cuore è più contento di prima di riprendere il viaggio in un mare tanto sconfinato da togliere il respiro. Tuttavia altre suggestioni hanno agito durante la gestazione del romanzo, e mi riferisco ad esempio agli echi letterari de l’Utopia di Tommaso Moro o L’iguana della Ortese; oppure alla materia mitica e leggendaria dell’Atlantide; o, infine, alle cronache del XIX secolo che raccontavano la storia dell’isola Ferdinandea, sorta e poi scomparsa nel canale di Sicilia dopo essere stata contesa da francesi, inglesi e borbonici. A dimostrazione che quando il potere cerca di possedere l’isola o ciò che l’isola rappresenta di più vivo e di più autentico, essa diviene nuovamente inafferrabile. Bene, da tutto questo e da altro ancora, come un materiale composito di riflessioni, storie e immagini, è nato questo mio ultimo romanzo.
Lui è Leonardo Bonetti
Romanzo, poesia, musica, film… c’è come il tentativo di esaurire ogni esperienza retorica, ogni virtù estetica. Come mai questo vagabondaggio nei generi?
Sono una persona inquieta, che continua a cercare, non uno scrittore, un compositore o un regista. Mi viene alla mente Palazzeschi e la sua Chi sono?: un musicista, un pittore, un poeta? No: “io metto una lente/ davanti al mio cuore/ per farlo vedere alla gente”. In fondo scrivere vuol dire mettersi a nudo. Ma non si tratta né di vanità né di autoesaltazione retorica (come direbbe Gozzano: “io mi vergogno,/ sì, mi vergogno d’essere un poeta”). C’è al contrario un’urgenza, una necessità espressiva che risponde ad altri appelli. Non si scrive per l’utile, né si compone o si rischia la reputazione con improbabili esperienze cinematografiche per ottenere un premio da corrispondere ai giudici dell’estetico in cambio di un giusto compenso. Perché in questa ricerca inesausta, disperatamente festosa, c’è la risposta a un sentimento di carattere etico ed estetico che si fa via via più pressante. Cresce, questo sentimento, di fronte al richiamo – che alcuni sentono disperato, altri stupito – di un mondo sommerso e senza parola che supplica di essere detto. Ognuno di noi scrive, compone, si esprime in modo autentico sempre e solo aiutando l’isola a emergere dagli abissi in cui era sprofondata. Occorre una dose d’amore al limite dell’umano per proteggerla dalla corruzione e dal potere. Occorre una parola che si nutra della sua ombra e del suo silenzio. Occorre la parola della poesia non come genere letterario, ma come indole dell’umano che attraversa i linguaggi, tutti i linguaggi necessari a difendere il cucciolo dell’isola dalla sua perdizione.
Scusa ma… che fine hanno fatto gli Arpia?
Sono attivi negli scantinati della postmodernità, direi. Anzi, posso rendere pubblica una novità che sa di anni Ottanta: a maggio verranno pubblicati i nostri lavori di allora in versione restaurata, su vinile: editore spagnolo e distributore statunitense. Un riconoscimento forse tardivo di quanto di arrischiato tentammo in quegli anni tanto prolifici.
Cosa leggi? Qual è il tuo rapporto con la cultura del tempo, con gli altri scrittori italiani?
Che dire? Mi sento perfettamente inserito nell’oggi, ma a veder bene del tutto in controtendenza. Questo mio tempo lo considero con lucidità, ne registro gli errori, le mancanze. Forse perché me ne sento distante quel tanto che basta. Non leggo autori contemporanei, mi limito a scorrerli velocemente, quasi avessi poco tempo da dedicare a chi, non credendo in niente, scrive per qualche altro motivo, per qualche altro fine. Quando incontro un autore lo affronto con appassionata allegria, tutto qui. Sono un postmoderno che cammina nella direzione comune a tutti procedendo a ritroso. E questo perché cammino rivolto all’indietro, con la nostalgia del moderno. È il Novecento il bacino a cui continuo ad attingere senza risparmiare qualche puntata verso le meraviglie dell’origine e della tradizione: il Duecento, Ariosto, Tasso. Ma se la mia predilezione per il secolo scorso è indubbia, resta sempre al di qua della linea sottile che sta tra moderno e avanguardia. Scrivo seguendo le tracce del mio cammino come solo può uno scrittore degli anni Dieci, degli anni Venti. E segno le mappe di questo percorso come una poetica ricca di corrispondenze. Non mi avventuro al di là delle avanguardie, se non per osservare con dolore le macerie della disintegrazione dell’io e della morte della pietà. In questo nostro tempo riconosco nel grottesco della tecnica tutti i segni di una continuità con l’orrore del passato, di un vivere e morire nella macchina e per la macchina. Ma so bene, e allegramente, che solo di eclissi si tratta. Che dall’arte e dalla letteratura si alzano ancora voci purissime a cantare, in questa nostra postmodernità, il sentire dell’uomo, il suo patire insieme: Ortese, D’Arrigo, Mazzaglia. E ogni volta è una festa.
Perché ostinarsi a scrivere?
Non si tratta di ostinazione. È semplicemente impossibile smettere finché si continua a credere. Le due funzioni sono irrimediabilmente correlate. Forse dovresti rivolgere questa domanda a chi oggi scrive senza più possedere l’organo preposto alla fiducia. Io, per me, sono ancora troppo sprovveduto, troppo giovane e sensibile per ottenere la patente di cinico o nichilista. Lascio veleni del genere ad autori più maturi e smaliziati. Chi non ha un faro da seguire, nell’insoddisfazione che ne consegue, genera un po’ di rumore, qualche disturbo, nulla più. Sennonché, di qua da quella linea, resiste l’umano, la vertigine della natura e dei mari dove ancora ci si arrischia alla ricerca di rotte che dall’isola portano ad altra isola, dal libro ad altro libro.
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Intervista a Satisfiction
25 marzo 2021
a cura di Gianluca Garrapa
L’ISOLA CHE NON C’ERA. INTERVISTA A LEONARDO BONETTI
L’isola che non c’era è il nuovo romanzo di Leonardo Bonetti con la postfazione di Antonio Prete, pubblicato nel 2021 dalla neonata casa editrice Il ramo e la foglia e, anzi, è proprio questo agile e apparentemente innocuo testo che ne apre le danze. Leo, il protagonista del romanzo, approda all’isola per farsi seguire lungo traiettorie intime e connesse strette al paesaggio intorno e alle presenze, umane e non solo, che lo abitano. Sentiamo delinearsi un ritmo della scrittura che fa dell’isola una metafora del romanzo e viceversa. Oppure forse nulla esiste ancora e la storia è da sempre, da farsi, a partire dal lungo lavorio (nove anni per la stesura del cartaceo pur non arrivando il romanzo a 200 pagine) che fa della lingua un lungo ponte attorno alla Cosa dell’arte e che imbastisce le storie dei personaggi in un luogo altro della parola. E il segreto dell’isola, come quello della scrittura, è proprio questo emergere e sommergere, approssimarsi e distanziarsi dal senso delle parole, dal loro perenne impossibile desiderio a farsi cosa. Imprevisto e simbolico è il reale. E la fine arriva, ahimè, troppo presto a dirci l’oblio di noi. Del mondo che crediamo.
«Occorre sperimentare a fondo l’isola e l’idea, dunque». Questo dice il dottor Elwin in un dialogo con Leo, intorno al governo dell’isola. Questo è un romanzo che domanda, che non risponde. E che fa della trama un pretesto della lingua. Sperimentare il desiderio mi sembra sia il compito fondante le azioni dell’autore e dei personaggi. Cosa puoi dirci a riguardo?
Inizierei dal testo letterario, dall’opera e dal suo ruolo nella dinamica che si instaura tra autore e lettore. Lo confesso, per me il libro è una zona, una regione privilegiata capace di sollevare e sollecitare domande. Una zona che si sfoglia, che si schiude. Il libro è sempre schiuso, infatti, mai del tutto aperto. Per questo non gli si può chiedere una sentenza, ma solo tante, innumerevoli risposte ancora da scriversi. Perché un libro induce a percorrere vie apparentemente impossibili, le stesse che si aprono davanti ai nostri sensi a ogni domanda che è capace di sollevare.
In questa dinamica l’autore non è depositario di verità né dispensatore di messaggi ma, semmai, strumento al servizio dell’esperienza dell’isola e dell’idea. E lo fa attraverso la sua voce e la sua parola, intorno a cui deve operare con le capacità artigianali di cui è provvisto.
Ma il libro non è un simulacro, intendiamoci, bensì un totem. E questo perché dietro il simbolo cui allude, misterioso fino a diventare oscuro, non c’è assenza di significato ma, semmai, un dio sconosciuto con cui entriamo in contatto attraverso la parola. Il libro è un albero genealogico scolpito da antenati le cui ascendenze non riusciamo più a risalire, una parabola di legno scritta in una lingua dimenticata e tutta da scoprire.
«Il paesaggio è dei più vari, il clima altrettanto: cime dalle nevi perenni, dolci valloni a mezzogiorno, d’un verde olimpico, sulle cui pendici pascolano vacche dal ventre pingue, perfettamente indifferenti.» Siamo nell’ouverture. Approdiamo nell’isola e già veniamo ammaliati da una scrittura raffinata, colta, ma anche corporale. Una scrittura del senso che ci ammalia. Che lavoro hai fatto sul linguaggio? e il paesaggio: sei stato ispirato da un territorio che di solito frequenti?
Il linguaggio nasce in me da una ricerca soprattutto musicale. E ciò che dici sull’unione tra lingua e corporalità come uno degli aspetti fondamentali della mia ricerca, mi trova sostanzialmente d’accordo. Non credo che la mia pagina sia uno studio puramente estetico, un esercizio di stile, insomma. Ma semmai il frutto della necessità di operare nel solco della tradizione letteraria; una letteratura, la nostra, particolarmente significativa, non c’è dubbio. Il rispetto che trasuda dalla mia prosa non vuole essere omaggio al monumento e al potere della parola della grande poesia ma estrarre, al contrario, la carica sediziosa che di quella tradizione rappresenta l’essenza, la sostanza vitale e persino bruciante. Quasi come l’escrescenza di un eros che la eccita e la produce. È in questo che entra l’altra grande protagonista della vicenda dello scrivere, e cioè la natura. Il mare, l’isola, il sole, l’abisso: tutto chiede di essere cantato, prega di essere detto, di avere parola. Il canto è voce e musicalità pensante. La natura vuole essere pensata in musica, il pensiero musicale esprimersi nella parola. Una parola che ha in sé sia un referente di senso o un aspetto puramente comunicativo, sia la pregnanza espressiva dell’oltre, quella capacità di dialogare con un punto posto al di là del significato che si sarebbe voluto esprimere.
Sul paesaggio, infine. No, l’isola non vive in un luogo né in un tempo definiti. È orizzonte possibile delle cose, rappresenta il reale nella sua più ampia potenza di significazione: è costruzione di un mondo a partire da ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò non riusciremo ad essere.
«Dunque quegli uomini credono sul serio alla loro realtà, comprende ora il nostro povero personaggio»: Leo, il nostro povero Leo, è un personaggio che si pone il dubbio di cosa sia reale e cosa no, e osserva con studio il mondo intorno. Come nasce Leo, e in generale come hai sviluppato gli altri personaggi e che tipo di confine la letteratura può (farci) percorrere tra reale e immaginario?
Leo è alter ego, forse, dell’autore stesso, ma in reductio, se così posso dire, un leo (alla latina, nella sua accezione poetica, “pelle di leone”) senza criniera, senza ardimento, sprovvisto e sprovveduto, in parte, di quegli strumenti intellettuali, oltre che fisici, di dominio o illusione di dominio sul mondo. È un Leonardo senza scrittura, insomma, o con la sola scrittura di cui è capace, fatta sull’acqua e sul vento; scrittura di chi sperimenta la parola nel suo aspetto puramente espressivo, che cerca il nome delle cose senza volerle dominare e, dunque, comprendere.
Un libro, in fondo, è un’isola che emerge dal mare dell’essere, come ogni opera che si rispetti. La parola poetica, l’unica possibile, se ne prende cura amandola e, dunque, senza pretendere di possederla. È la parola dell’espressivo che non ha mire né secondi fini ma si esaurisce e si fa sovrana nel momento stesso in cui rinuncia a ogni trono. A voler cercare di comprenderla, di ridurla a un significato definitivo, si rischierebbe, ancora, di farla sprofondare negli abissi.
La storia dell’isola è, in fondo, la storia stessa dell’opera.
Mentre l’altra parola, quella del potere e del dominio, ha ormai rinunciato ad amare per il solo scopo di armare. Sennonché l’armadella parola si rivolta sempre contro chi la scaglia.
«Io e Judith, dunque, salpammo contro ciò che eravamo stati, portando a compimento la nostra timida rivoluzione, rivoluzione che si avvera solo con l’inganno». Per molti aspetti il romanzo porta in scena anche un discorso politico di cui veniamo a conoscenza tramite la bocca dei personaggi che non sembrano farsi semplici portavoce di una presenza esterna. Proprio dall’interno delle loro vite, infatti, si sviluppano le idee, urgenti, di cui veniamo a conoscenza. C’è una necessità che mi sembra, però, sia anche dell’autore. Può esistere ancora oggi, in ambito letterario, una possibilità di rivoluzione? Un’urgenza che ribalti l’attuale, secondo me, conformismo digitale?
Ogni libro che voglia aspirare a divenire tale è già una rivoluzione in atto. Rivoluzione timida, come direbbe il Dottor Elwin, uno dei personaggi cardine dell’isola; rivoluzione che avanza passo passo, seguendo un percorso in salita attorno a questioni sempre centrali. Perché una rivoluzione (come ogni scrittura) non ammette diversioni, e si fonda sulla fiducia incrollabile nei confronti del lavoro paziente intorno alla parola. Così che, se un libro emerge (come un’isola) una rivoluzione è davvero compiuta. Ma, parafrasando un passo del libro, la rivoluzione compiuta non basta mai a se stessa, non può esaurire il senso del mistero dell’ordine delle cose. Intorno al libro, intorno all’isola, si scatena allora la parola del dominio; il suo scopo è estrarne il senso, il messaggio, “la formula che mondi possa aprire”, per citare Montale. Ma non è questo che la letteratura può dare. La letteratura è sempre fonte di interrogazione e un libro vale nella misura in cui, sollevando questioni sopite da tempo, contribuisce a cambiare chi si accinge alla sua lettura. Letto un libro non possiamo più essere gli stessi. Un libro deve cambiarci oppure rinunciare a costituirsi in libro.
Ma torno alla tua domanda: cos’è una rivoluzione oggi, e qual è il ruolo sedizioso della letteratura? Innanzi tutto la rivoluzione non è mai un salto nel buio, ma un processo consapevole, paziente, costruito nel tempo, mai fulmineo ma, semmai, studiato in ogni minimo dettaglio. Se la fiammata rivoluzionaria potrebbe apparire improvvisa, la sua preparazione si rivela un fiume carsico in marcia per passaggi misteriosi e invisibili, che scorre sotto i nostri piedi tutto il tempo necessario alla sua dirompente fuoriuscita. Proprio come la vena di una scrittura.
Infine, credo, la vera funzione rivoluzionaria della letteratura non può esaurirsi in uno sperimentalismo di forme, strutture o significati. È, la sua rivoluzione, il confluire di necessità e verità dentro una ricerca genuina. Nel momento in cui si scrive liberi dal controllo del proprio dominio sulla parola, allora si diventa davvero scrittori e, dunque, rivoluzionari.
Ci sono stati particolari riferimenti letterari, e non solo, anche musicali o artistici in generale, che pensi possano aver influenzato la tua scrittura?
Di riferimenti letterari è costellato l’arcipelago delle isole interne all’isola. E non solo. Non sono un purista né un integralista della letteratura. Tanti sono gli spunti che provengono dai vari ambiti del linguaggio e che operano in qualche modo all’interno della mia scrittura. Da quello letterario, come è ovvio, con riferimenti più o meno espliciti ai modelli della mia formazione. Mi riferisco soprattutto alla Ortese de Il porto di Toledo e de L’iguana. E, andando oltre confine, al Sebald de Gli anelli di Saturno o al Bernhard de Il soccombente. E, per passare alle altre arti attraverso una sorta di genealogia, forte è sicuramente l’influsso operato su di me dai due Tarkovskij: il poeta Arsenij e il regista (o poeta del cinema, per dir meglio) Andreij. Padre e figlio nel nome dei “russi”, come avrebbe ironizzato Tommaso Landolfi citando un suo importantissimo volume. Ed è proprio lo scrittore di Pico, traduttore finissimo dal russo – oltre ai Dostoevskij, Checov e Tolstoj – ad essere l’altro grande punto di riferimento letterario della mia ben più modesta ricerca. Infine, per ciò che concerne la musica, vivissimo agisce in me il grande capitolo della psichedelia e del rock tra gli anni settanta e ottanta, oltre alla seduzione sprigionata dal mio recente innamoramento per l’opera del grande compositore ceco Antonin Leopold Dvořák.
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Intervista a Armadillo Furioso
11 marzo 2021
a cura di Francesco Bove
L’isola che non c’era (Il ramo e la foglia edizioni, 2021) è un romanzo che ha i piedi ben saldi nel nostro presente. Un racconto avvincente ed enigmatico che vede come protagonista Leo, un ragazzo che ha la possibilità di approdare su un’isola, per l’appunto l’isola che non c’era del titolo, che può offrire nuove possibilità agli uomini. Si può ricominciare da zero, lontano da tutti, per fondare una nuova società con nuove regole. Ma l’isola sembra nascondere qualcosa di molto antico, profondo e, attraverso l’incontro con gli altri abitanti, Leo viene trasportato in un percorso oscuro, senza apparente via d’uscita. Tanti sono i punti di forza di questo bel romanzo e, tra questi, una lingua colta ma popolare che rende il libro accattivante. La casa editrice indipendente “Il ramo e la foglia edizioni” è stata fondata da Roberto Maggiani e Giuliano Brenna ed è sicuramente un nuovo modo di fare editoria in cui non ci sono barriere tra editore e scrittore ma un rapporto sinergico e produttivo.
Incuriosito da tutto ciò, ho fatto qualche domanda a Bonetti in modo da poter offrire al lettore una bussola per orientarsi tra le righe di questo romanzo.
Il protagonista di questo romanzo è Leo, che approda su un’isola misteriosa che potrebbe offrire nuove possibilità di vita agli uomini. La questione che tu poni sul tavolo è chiaramente universale ma, secondo te, oggi, concretamente, quante possibilità di un’isola del genere abbiamo?
Quest’isola, come suggerisce il libro, esiste davvero, non è un sogno ma, semmai, la reale estensione del nostro desiderio dentro l’orizzonte del possibile. Questo perché una rivoluzione è sempre in atto e avviene sotto i nostri occhi senza che ce ne rendiamo conto. Non è solo una rivoluzione astronomica, ma esistenziale. Una rivoluzione che si compie passo passo e che, tornando al punto di partenza, ritrova gli stessi luoghi profondamente cambiati. Li si riconosce, è vero, ma non sono più gli stessi. Perché quest’isola è un po’ come l’opera di una vita. Il viaggio che facciamo partendo alla sua volta sarà la misura di quanto, restando fedeli a noi stessi, abbiamo trasformato il mondo dentro e fuori di noi. L’isola è una rivoluzione avvenuta senza che ce ne potessimo accorgere, il processo di una scrittura e la nascita di un mondo che non c’era.
Una sera Leo va dal Dottor Elwin e gli chiede lumi sul governo dell’isola. Nota che ha una valigia di cuoio, piantata in mezzo al corridoio. Al che Leo gli chiede se è in partenza ma Elwin, forse mentendo, risponde «No, certo. Del resto non sarebbe comprensibile: questo è un posto in cui si resta». E, ancora, insiste, dicendogli che occorre sperimentare a fondo l’idea e l’isola. Quanto in profondità sei andato per sperimentare le idee che animano questo romanzo?
In realtà questo romanzo è stato concepito a partire da un’altra isola della mia scrittura. La prima stesura, infatti, è del 2012, l’anno in cui pubblicai un libricino di meditazioni in prosa poetica: A libro chiuso. In quel libro, se devo essere sincero, è nascosto il cuore de L’isola che non c’era. Potrei persino affermare che il mio ultimo romanzo ne sia la diretta discendenza, che da quel bozzolo di poetiche abbia avuto origine l’aspetto più propriamente filosofico di questo libro. Ecco dunque che l’idea, nella sua valenza di filosofia o poetica che dir si voglia, incarna pienamente la forma dell’isola. E, in questo rapporto, viene prima evocata e poi incisa definitivamente dalla sua scrittura.
Ma i chiarimenti chiesti da Leo al Dottore vertono sul governo dell’isola e, cioè, sul suo potere. È questo il nodo più difficile da sciogliere, sia del libro che di ogni nuovo progetto di società. E questo perché è proprio nel potere, più di ogni altro aspetto dell’umano, che si nasconde ciò che l’umano offende in nome dell’utile, dell’interesse e del dominio. È in questa zona grigia che l’isola si gioca davvero il suo futuro.
Sono tante le immagini che offri al lettore e incredibili le suggestioni che, con uno stile ammaliante, riesci a creare. Come metti in moto il tuo processo creativo?
La mia scrittura segue, per quanto ne possa avere reale cognizione, un andamento materno, un movimento oscillatorio e morbido, diviso in due momenti: il venire e il tornare. Un’orchestrazione (così potrei definirla) frutto di un’esperienza della parola essenzialmente musicale, ritmica e melodica. La mia pagina somiglia più a una partitura che a una costruzione sintattica, e l’aggettivazione e le strutture nominali sono sezioni ritmiche e armoniche atte a dividere e costruire l’insieme. Un lavoro dunque che procede setacciando il grosso dell’ispirazione per arrivare gradualmente, dopo una lunga sedimentazione, al testo definitivo. Non è un caso, infatti, che la lavorazione dell’Isola che non c’era sia durata nove anni.
A me L’isola che non c’era è sembrato un bel viaggio spirituale all’interno di una dimensione, probabilmente, sconosciuta a molti occidentali. Sbaglio se ti dico che ho ritrovato l’essenza di alcuni testi epici indiani come la Bhagavad Gita?
Credo che L’isola che non c’era sia un’opera profondamente occidentale. Ma con questo non nego influssi provenienti da altri mondi e altre culture, soprattutto quelle che tanta parte hanno avuto nella formazione del concetto stesso di Occidente. Se dunque venature di carattere orientale sono presenti nel libro, non credo però esista un rapporto diretto con testi specifici di quella tradizione. D’altronde istanze simili attraversavano la letteratura europea sin dall’età tardo antica e medievale. Quell’essenza di cui parli è antica, insomma, e filtrata da tutta la tradizione occidentale.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Posso fare alcuni nomi per delineare un approssimativo e ipotetico albero genealogico, per così dire. Tra gli italiani metterei Landolfi, Gadda, D’Arrigo, Ortese. Tra gli stranieri Tolstoj, Cechov, Sebald, Bernhard. Ma a restringere il campo, per la mia Isola che non c’era, farei solo due nomi: Anna Maria Ortese e Winfried Georg Sebald.
Quanto cinema c’è nella tua scrittura?
Molto, credo. Le influenze più importanti sono quelle della linea poetica della visione, che ha come capostipiti i russi Tarkovskij, Sokurov e Michalkov. Quindi, tra le esperienze più recenti, l’opera di registi dell’est come Béla Tarr e Jan Svankmajer. Ma non posso certo ignorare, almeno per quanto riguarda l’isola, il contributo determinante della cinematografia italiana con Stromboli, terra di Dio di Rossellini, L’avventura di Antonioni e L’invenzione di Morel di Emidio Greco.
Più in generale credo di poter dire che la mia è una scrittura profondamente visiva pur mantenendo tutte le caratteristiche di sedimentazione letteraria proprie della cultura nazionale. È una scrittura “italiana”, insomma, ma profondamente corroborata da influenze musicali e cinematografiche di quella contemporaneità che definisco, e non sempre generosamente, postmoderno; un tempo che vivo con spirito critico come solo un moderno saprebbe fare.
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Intervista a International Web Post
4 marzo 2021
a cura di Giancarlo Garrapa
Allora, raccontaci un po’, come nasce questo romanzo?
Ad essere sincero, più in generale, mi sento più un prosatore che un romanziere. Perché la scrittura è per me sempre ricerca e scoperta di una lingua a cui si deve arrivare dopo un percorso a volte agevole, altre più difficile. In questo caso, specifico, dell’Isola che non c’era, il romanzo è un po’ come il suo titolo, una materia fatta di parole che prima non c’era e ora, in modo più o meno miracoloso, riaffiora da una regione nascosta ma non meno reale. Come dire che il romanzo esisteva già in una dimensione inconsapevole, proprio come l’isola sommersa. Non è un caso, infatti, che la storia dell’isola raccontata in queste pagine sia legata al libro. L’isola emerge nel momento stesso in cui il libro che narrava la sua storia sprofonda nell’oblio. Ecco, ricostruire quel libro, portarlo alla luce, inginocchiarsi al valore filologico della parola, equivale a condannare l’isola a un nuovo sprofondamento. Perché l’isola vive dell’oblio del libro. Ed emerge in concomitanza con la chiusura del libro. Quasi che solo a libro chiuso possa vivere davvero la sua lezione più autentica.
In realtà questa prosa sembrerebbe molto tradizionale: la disposizione dei capitoli, dei personaggi, i luoghi, ecc. In realtà però si nota in questo libro un lavoro molto profondo e particolare proprio sulla lingua, sui personaggi e la psicologia. Ecco, raccontaci un po’ come hai lavorato a questo tuo romanzo.
La scrittura sgorga in me sempre come un flusso, è liquida, sa di marine, scorre tra sponde di fiume – che sono i miei luoghi, quelli dove vivo. È materna, se così posso dire, e al tempo stesso musicale. C’è una liturgia della parola, una messa in scena rituale, insomma, che ha a che fare con l’origine, con il prima, se così posso dire. Si scrive sempre, a mio modo di vedere, mettendosi in connessione con un prima che affonda nelle regioni in ombra della nostra parabola esistenziale, quelle certe zone immerse, appunto, in un periodo della vita di cui non possiamo avere un ricordo preciso.
Però questo non può esaurire il discorso sulla scrittura, non ci si può limitare a una connessione intima e istintiva col linguaggio che nasce e viene alla luce; c’è bisogno di un lavoro, lungo, sulla parola. Insomma, quella parte più artigianale, frutto di paziente intervento sul testo. Ecco, questo romanzo, questa isola, me ne rendo conto solo ora, è cominciata a emergere nove anni fa. Nove anni di lavoro per un’isola che non c’era. Bene, se per me ne è valsa la pena, spero altrettanto per i lettori.
Comunque, leggendo il tuo romanzo ho avuto l’impressione di avere a che fare con quella che io definisco una scrittura desiderante, una scrittura attenta alla parola ma anche un fraseggio che in qualche modo si discosta dal tradizionale modo di intendere il romanzo. Ecco, rispetto al panorama contemporaneo, come ti collochi, come collochi questo romanzo che a mio parere è abbastanza eccentrico?
In assoluta controtendenza, credo. Rimanendo però del tutto ancorato ai miei tempi, perfettamente integrato nel contesto attuale. In tempi di postmoderno imperante mi considero un postmoderno con la nostalgia del moderno. Comunque uno scrittore che va nella direzione comune a tutti procedendo però a ritroso, e questo perché cammina rivolto all’indietro, perennemente attratto da una forma o memoria del passato ormai mitica e irraggiungibile. Diciamo che coltivo il mito del moderno in pieno postmoderno. Vedo il moderno come un luogo (forse un’isola?) in cui poter tornare per sfidare il senso del tempo. Io so che è un’illusione, che il tempo è irreversibile, che non sarà possibile tornare al prima. Ma continuo a credere che la letteratura sia proprio questo: un cammino verso un tempo che non torna più. Più questo che una letteratura che va contro l’oblio. E credo anche che il tempo e lo spazio siano il vero oggetto di questa mia letteratura tendenzialmente sediziosa e rivoluzionaria. Ecco, questo mi sembra un dato di fatto considerando tutto quello che ho scritto finora.
Quindi, sostanzialmente, il desiderio è un elemento fondamentale, è forse la struttura portante del tuo romanzo. È proprio così?
Il narratore di questo libro direbbe che bisogna «farsi desiderare più del desiderio stesso». E allora quello del desiderio, è evidente, è uno dei nuclei simbolici dell’isola. Quello di un mondo utopico in cui scompaiono le differenze e gli egoismi. È un’isola che è ontologicamente desiderio, come la stella del marinaio sotto un cielo notturno, un’isola a cui si accede temendo di veder tradita la sua utopia. Desiderare in fondo è aspirare alle stelle nonostante la loro lontananza costitutiva, irriducibile. E il libro resta all’interno di questo cerchio magico. Anche nella sfera amorosa, costellata da personaggi femminili sfuggenti ma determinati.
Ecco, a volte mi chiedo se in tutto questo sfuggire, in questo desiderare fondato sulla lontananza e sulla irraggiungibilità, ci sia qualcosa che può rientrare nell’orizzonte del possibile. E mi rispondo di sì. Perché credo che proprio la letteratura può permettere a un’isola che non c’era di esserci davvero; che solo la letteratura può far sì che un’isola come questa sia più reale della realtà stessa.
Bene Leonardo, dove possiamo trovare questo tuo romanzo?
In tempi di postmoderno imperante come questi, anche questo libro si può trovare in tutti i canali di distribuzione canonici, come Amazon, IBS, ma anche nelle grandi librerie come le Feltrinelli e le Mondadori. A questo proposito abbiamo fatto un firmacopie alla Libreria Tomo a Roma, il 14 marzo dove si terrà la presentazione, nonostante i tempi particolari e le tante difficoltà. La faremo rispettando il protocollo e il distanziamento dovuto alla situazione di emergenza che stiamo vivendo.
Intervista a Ostia TV
3 aprile 2016
a cura di Maria Grazia Stella
Leonardo Bonetti, 53enne regista romano, è un apprezzato poeta e scrittore italiano, con una grandissima passione per la musica che da sempre accompagna, indispensabile colonna sonora, la sua vita e le sue esperienze artistiche. Alla vigilia della proiezione del suo film ad Affabulazione ha rilasciato ad Ostia Tv un’intervista in esclusiva nella quale risponde alle nostre domande, raccontandosi con grandissima disponibilità. Buona lettura!
D. Nasce come un apprezzato scrittore: quando arriva il cinema nella sua vita? Ci sono un film o un regista che l’hanno indotta a cimentarsi in questa forma di arte?
R. In realtà le mie prime esperienze artistiche sono legate alla musica. Tanto che tuttora non riesco a concepire un'opera che in forma musicale. Che sia letteratura o cinema sempre prevale in me il senso dell'armonia e del ritmo attraverso cui prende forma, sempre, la creazione. Come mi capita di ripetere spesso, non sono un purista, ma una persona attenta alle forme e alla sostanza misteriosa dell'espressivo. Amo il cinema, naturalmente, oltre alla musica e alla letteratura. E se devo essere sincero il regista che ha cambiato la mia vita, il mio modo di vedere il mondo, aprendomi letteralmente dentro, è stato senz'altro Andrej Tarkovskij. E questo è accaduto ormai più di dieci anni fa.
D. Con Un amore rubato esordisce nel lungometraggio dopo il medio del 2015: ha ritenuto fosse giunto il momento opportuno?
R. Sembrerà strano, ma non è stata una decisione presa a tavolino. Non ho mai l'esatta percezione della forma in cui si concretizzerà il lavoro che intraprendo. Non sapevo che sarebbe diventato un lungometraggio, all'inizio. D'altronde è quello che mi capita spesso. Nei confronti dell'espressione artistica cerco di mettermi in ascolto. Perché quando c'è un'urgenza non è più possibile opporre resistenza. Se non mettendo a repentaglio la vita stessa dell'opera. Così quando è arrivato il momento non c'è stato nulla da fare. Il film s'è fatto al di là della nostra volontà di farlo. Ci spingeva a compierlo. Ed è stata un'avventura indimenticabile.
D. Come nasce il film? Che cosa l’ha ispirata, se posso usare questa espressione?
R. Sono partito dai personaggi, dai luoghi. Un condominio della periferia romana (che conoscevo bene), una ragazza ed un ladruncolo che si incrociano per le scale. Sono partito dalla scintilla, insomma, dal luogo e dall'incontro dal quale prende vita una storia. E non mi sono messo di mezzo: ho lasciato che i personaggi si facessero da soli, ho dato ascolto alla loro natura.
D. Ha incontrato difficoltà come regista esordiente nel trovare finanziamenti?
R. Le difficoltà sono state tante. Ma le abbiamo affrontate una ad una, con fiducia e determinazione. Un amore rubato è un film autoprodotto ma dai costi altissimi. Abnegazione, dedizione, cura. Un impiego di capacità artistiche ed espressive inimmaginabili. E’ davvero difficile riuscire a quantificare lo sforzo messo in campo per portare a termine un lavoro di questo genere. Abbiamo chiesto a tutti coloro che hanno partecipato un impegno davvero gravoso.
D. Quanto è durata la lavorazione e con quale criterio ha scelto gli attori?
R. La scrittura ha portato via circa sei mesi mentre le riprese vere e proprie si sono concentrate nel corso della scorsa estate. Per il montaggio e la postproduzione audio e video ci sono voluti altri sei mesi circa. Per gli attori abbiamo scelto persone con le quali avevamo un'affinità, una relazione. Tutti rigorosamente non professionisti che, però, hanno dato prova di grande qualità recitativa.
D. Come definirebbe il suo ‘genere’? Vuole raccontare qualcosa di nuovo lanciando magari un ‘messaggio’?
R. Non ho mai considerato la creatività come un'operazione intellettuale. In un'opera si riversa la sensibilità, l'esperienza, la cultura non di una sola persona, di un autore, ma del mondo che è in grado di rappresentare. In questa funzione di testimonianza propria di chi scrive, in questa discrezione e capacità di fare un passo indietro, credo profondamente. Quando scrivo non penso di dover dare messaggi. L'artista non è depositario di verità cui altri sono esclusi, non vive posizioni privilegiate. La sua specificità, la sua verità, è nella forma con la quale dà voce al mondo invisibile venuto alla luce suo malgrado. Non è lui il padrone della sua storia. E le chiavi di lettura, le interpretazioni del suo mondo, saranno appannaggio solo di chi entra nel cerchio magico dell'opera.
D. Quando è stato presentato il film e che accoglienza ha avuto?
R. Il film è stato presentato il 14 febbraio scorso nelle sale UCI Cinemas di Parco Leonardo, nel comune di Fiumicino, Roma, ottenendo un grande riscontro di pubblico con nostra, non lo nascondo, grande meraviglia.
D. Che cosa ne pensa del cinema italiano, gode di un buono o di un cattivo stato di salute? Che cosa ne pensa dei cinepanettoni, degli Zalone e delle commedie che riempiono le sale? Pensa ci sia spazio per i nuovi autori?
R. Il cinema italiano, la grande industria del cinema nel suo complesso, sconta le difficoltà proprie del mondo che viviamo. La mercificazione della cultura e dell'arte è oggi giunta a uno stadio particolarmente avanzato e limita fortemente le possibilità espressive del mezzo. Eppure le voci e le sensibilità originali ci sono, si fanno sentire. Penso ad esempio a Giuseppe Gaudino con il suo Per amor vostro. Il cinema commerciale è in genere quello che crede di dover essere, anche se al suo interno a volte si scoprono realtà inaspettate. Bisogna sempre giudicare caso per caso, combattere i pregiudizi. In generale, comunque, non credo che qualcuno possa togliere spazio a qualcun altro. Chi ha necessità espressive difficilmente si ferma di fronte alle difficoltà. Perché queste non sono mai davvero insormontabili. Ciò che conta è credere, comunque, alla necessità che ci spinge a tentare esperienze tanto difficili quanto esaltanti. Di solito trincerarsi dietro le giustificazioni è segno di debolezza creativa. E se qualcosa deve sbocciare questo avverrà anche nelle situazioni più impensabili.
D. Tra i registi italiani acclamati come Sorrentino, Tornatore, Benigni ma anche Virzì, Genovese, Garrone, solo per fare qualche nome, chi apprezza?
R. Sono nomi altisonanti. E tanti sono i lavori interessanti che hanno realizzato. Di fronte alla loro esperienza, alla loro capacità, mi inchino. Ma non è questa l'idea di cinema che porto nel cuore.
D. Del cinema italiano, della scuola italiana della liberazione come la definì Bazin, del neorealismo, ma anche di un cinema successivo - Visconti, Rosi, Petri, per esempio – ama qualche regista in particolare?
R. Non posso non amare la grande stagione del cinema italiano. Essa rappresenta a tutt'oggi una bussola per chi voglia cimentarsi con questa forma espressiva. I nomi di maggior spicco, che mi sono più cari, sono senz'altro quelli di Visconti, Antonioni, Fellini. Ma fare una selezione è davvero troppo difficile. Tutto il cinema italiano di quel periodo è per me di grande interesse.
D. Del cinema straniero – da quello francese allo spagnolo, orientale, statunitense tedesco e indiano – ama qualche autore?
R. Posso fare qualche nome per dare il senso dei miei gusti. Prediligo il cinema europeo. Tra i tanti registi, oltre quelli citati - Tarkovskij innanzi tutto - direi Bergman, Bunuel, Bresson.
D. Lascio a lei lo spazio per una riflessione a conclusione di questa intervista, ringraziandola per essersi raccontato facendosi così conoscere dai lettori.
R. Penso che fare un film significhi in fondo aprire degli spazi creativi, dando spazio a forme mai prime tentate. Per cui mi aspetto che sia solo il primo. Che ne seguano altri e che dia la possibilità di vivere nuove esperienze. Che sia, insomma, solo l'inizio di un percorso. Perché l'esperienza creativa ha a che fare con l'amore. E chi scrive porta un dono, ha un'offerta da fare.
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Intervista a Solo Libri
22 novembre 2013
A cura di Alessandra Stoppini
Leonardo Bonetti è nato a Roma nel 1963. Poeta e scrittore, laureatosi in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, ha pubblicato articoli su diverse riviste letterarie e cinematografiche tra le quali Il Caffè illustrato, L’illuminista, 451 Via della Letteratura della Scienza e dell’Arte, ET Cinematografica, La Gru, Rifrazioni. Per Marietti ha pubblicato i romanzi:
Racconto d’inverno (Premio Nabokov 2009),
Racconto di primavera (Premio Carver 2011)
Racconto d’estate (2012).
Il suo volume A libro chiuso, meditazioni a margine in prosa poetica(Sigismundus 2012), ha vinto la XXVI edizione del Premio Lorenzo Montano.
Il 13 novembre è uscito Una storia immortale (Italic, Collana Pequod) avvincente romanzo in bilico tra thriller e racconto filosofico la cui storia sembra non avere fine perché appunto immortale. Tutto ha inizio in un albergo, dalla porta “lastra nera da cui occhieggia uno spioncino socchiuso” della camera 46, situato nel centro di una Roma del futuro alle soglie di un’importante tornata elettorale.
“I passanti, per strada, attendono quello che deve accadere senza battere ciglio, respirando solo in modo un po’ più veloce. Sanno che un gruppo di manifestanti dovrebbe passare di lì a spaccar tutto, ma non si lasciano condizionare”.
“...vendetta, che nascosa, fa dolce l’ira tua nel tuo secreto”. Leonardo, per quale motivo ha posto come esergo del volume un verso tratto dal XX canto del Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri?
Il tema della vendetta è il cuore di questo libro, di questa storia immortale. Un sentimento che, nell’esperienza dell’ingiustizia, sublima il dolore prolungandolo nel tempo, fissandolo ab aeterno. Sicché, nel fare questo, ne disinnesca al tempo stesso il potere dirompente. Lo scotto da pagare è il più alto: esserne divorati. Una vendetta protratta per anni divora l’anima di chi è vivo arrestando ogni sua evoluzione al momento dell’ingiustizia subita, impedendo che si trasformi in una crescita naturale, sensibile. È dolce, l’ira, nel segreto della vendetta. E il suo è un prolungarsi della pena, un "purgatorio". Questo Dante lo aveva fissato con magistrale sintesi poetica, attraverso il suo dettato più vibrante, robusto.
Come è nata l’idea centrale del romanzo?
All’origine del romanzo c’è una necessità sentita nel corso degli anni, generata dal rapporto col mondo, dall’attrito di un’anima: affrontare il tema del male attraverso la classica declinazione di spietatezza e compassione. Con la coscienza che questi due poli richiedono ad ogni passo una ridefinizione; che la necessità, anzi, sottesa al loro contrapporsi, è quella del più profondo cambiamento. Il libro, intendo - questa Storia immortale - chiede questo, espressamente, ma pretendendolo. La sua è una tensione e nello stesso tempo una preghiera; che a cambiare siano i protagonisti, innanzi tutto, ma anche, è ovvio, coloro che attraverseranno il libro armati solo della propria sensibilità, privi di ripari. Il romanzo, immagino, si esprime così; non fa che chiedere, a ogni pagina, un Nigro meno tragico, una Blanička meno pura.
Che cosa hanno in comune l’anziano Professor Sebastiano Nigro e la giovane Blanička “scesa direttamente dalle campagne della Bucovina”?
Un dolore. Entrambi, infatti, portano la sofferenza e la pena dei loro destini. Il primo, l’anziano Professore, col carico di una colpa; quella di chi ha creduto a un mondo, a una cultura e, aggiungerei, a una ideologia dell’ordine; un mondo che, dopo averlo allevato nell’illusione delle sue certezze, gli ha strappato la figlia violando il cuore più intimo del suo amore, il più fragile. Solo dall’incontro di questi personaggi può aprirsi un varco, la possibilità stessa di una trasformazione. Il romanzo, è vero, non risolve le contraddizioni di un mondo, il nostro, postmoderno e globalizzato, ma propone una via: un lungo confine, estremo, dell’origine, dove un’ultima svolta è possibile. La si compie in due, secondo le sole coniugazioni di cui la parola poetica dispone: l’io e il tu. Quando la seconda persona diverrà prima plurale, puro noi, sarà di nuovo possibile scendere dalle montagne, tornare a valle per scavare il solco di una nuova città. Questo l’auspicio del libro, il suo testamento.
L’Italia del prossimo futuro da Lei descritta nel romanzo, non è poi così diversa da quella attuale, non trova?
L’Italia descritta nel libro è, in effetti, una variazione sul tema, musicalmente parlando; è l’Italia di un futuro ancorato al presente; Italia del domani, del dopodomani, al più. Ed è ovvio che si tratta di un paese in crisi, una comunità frammentata e ferita, senza più consapevolezza se non quella, verticale e oscura, di un bisogno: il cambiamento. Una necessità che, però, si vuol ritardare sine die, essenzialmente per paura. Si chiede cambiamento e si prova terrore. Credo che il romanzo viva di questa contraddizione, di una richiesta di trasformazione che, allo stesso tempo, vive della sua negazione, nello sgomento per le conseguenze che il cambiamento comporterebbe. Lo stallo sembrerebbe completo se quel varco scavato da Nigro e Blanička, scavato in un luogo estremo, non costringesse a riscoprire il senso più profondo dell’umano. Il luogo del confine, dell’origine. Nel romanzo questo è identificato con il Crevacol, il colosso che sovrasta Aosta, luogo disumano per eccellenza che, proprio per questo, si trasforma nel luogo dell’origine prima dell’umano. Il cuore dove la radice prima muove verso l’apparire, il processo stesso della trasformazione nel suo primo stadio. Lì i protagonisti della vicenda saranno chiamati a ridefinirsi senza scampo. E a ritrovare l’umano come estremo senso dell’avventura esistenziale.
Ha sempre coltivato la passione per la scrittura?
Scrivo da sempre, dall’adolescenza, come molti. E vengo dalla poesia e dalla musica. Trovo strettamente correlato un linguaggio all’altro e affronto il genere romanzo come un atto poetico. Non posso distinguere in maniera troppo netta la strofa dal capitolo, perché entrambe le forme portano l’eco di una parola dal senso profondamente musicale. Con, in più, il portato religioso di chi unisce ciò che era separato. Se la musica, infatti, rappresenta l’espressione del primo contatto col mistero e l’origine delle cose, la parola, per converso, porta a compimento la vocazione più intima dell’umano, il suo stupito desiderio di ricongiungimento. La parola, per dirla più semplicemente, ’lega’ l’esperienza del vivere attraverso i due cuori di un libro: la natura e il tempo. Ecco, questo, credo, è il cammino verso cui indirizzare una vita, un discorso poetico.
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Intervista a LeggereTutti
n. 71 ottobre 2012
A cura di Gaetano Menna
Il “canto” delle stagioni
di Leonardo Bonetti
Scrittore e vocalist si alterna tra narrativa e rock, ed i suoi libri diventano anche, in percorsi paralleli, opere musicali. Il suo ultimo romanzo “Racconto d’estate” è il terzo di una quadrilogia dedicata al tempo che scorre; racconta di una allegra brigata in fuga oltre la linea dell'orizzonte.
DI GAETANO MENNA
Abbiamo incontrato Leonardo Bonetti: è il leader di una rock band, gli Arpia, ma è anche un prolifico scrittore. È uscito ora il suo ultimo romanzo “Racconto d’estate” (Marietti, 2012), il terzo della quadrilogia delle stagioni (dopo “Racconto d’inverno” del 2009 e “Racconto di primavera” del 2010). «Le stagioni – ci dice - permettono di esplorare secondo un ritmo naturale il cuore vivo dell'essere. Il loro avvicendamento non è che la faccia mutevole dello stesso centro scavato nel vortice dell'esistenza».
L’alternarsi delle stagioni dà il senso del tempo che scorre; in “Racconto d’estate” c’è questa stagione solare, lunga, interminabile che prende avvio dal 26 dicembre…
«Ogni romanzo rappresenta una vera e propria "matrice di tempo", se così posso dire: “Racconto d’inverno” è il racconto al passato remoto, della lontananza; narrazione e non vita coincidono (il protagonista racconta da morto). “Racconto di primavera”, invece, volto all'imperfetto, è ambientato nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino e del tramonto irreversibile di ogni progetto alternativo di società. “Racconto d’estate”, infine, tutto al presente, è narrato in presa diretta, come un diario dell'oggi. Il resoconto della fine di un mondo dominato dal pensiero unico, in cui i protagonisti anelano alla fuga oltre la linea dell'orizzonte, dove si suppone finisca quella stagione senza fine: un’estate-sistema che sembra non prevedere vie d’uscita».
Il motore di “Racconto d’estate” è il viaggio e del suo naufragio.
«Il mito del viaggio è cruciale, pone in essere la trasformazione dei personaggi. Si fugge per tornare al punto di partenza come un vero e proprio atto sedizioso e sovversivo. Se nell'Odissea Ulisse approda ad Itaca per sgominare gli usurpatori e insediare di nuovo la giustizia del "capo buono e giusto", nel mio romanzo il personaggio soprannominato “Zampa di Cane” e la sua brigata tornano per distruggere il potere in sé, a partire dai suoi simboli».
Il tuo è un romanzo di formazione, picaresco, anche divertente.
«Lo considero un romanzo “ignorante”, ma anche “dottissimo”, in cui il linguaggio la fa davvero da padrone, con punte di espressionismo di derivazione gaddiana, dai tratti comici e umoristici. I personaggi appaiono da subito eccessivi e stravaganti, sconfinando nel fumetto a causa della loro forte connotazione; ma tutto questo senza che l'ironia divenga amara o corrosiva. Le avventure di Zampa di Cane e del gruppo di ragazzi di cui fa parte, suscitano in fondo sentimenti di tenerezza e di fraternità».
Tra gli elementi caratterizzanti c’è anche la musica. Non a caso “Racconto d’inverno” era stato pensato inizialmente come testo dell’omonimo disco degli Arpia; poi il testo è cresciuto a dismisura. Anche “Racconto di primavera” sta diventando un disco.
«In “Racconto d’inverno” il romanzo e la composizione musicale hanno marciato di pari passo, integrandosi. In “Racconto di primavera” la composizione ha preso il suo corso in modo autonomo, articolandosi in brani essenzialmente strumentali. In “Racconto d’estate”, infine, la musica è divenuta vera e propria "protagonista": nel libro, infatti, la banda di Zampa di Cane è, non a caso, un gruppo musicale».
A quando l’uscita di “Racconto d’Autunno” che chiuderà la quadrilogia?
«Ci sto lavorando, seppure combattuto; forse perché l’opera e la sua compiutezza rappresentano per me un problema difficilmente risolvibile. Uno scotto che pago alla difficile questione della modernità».
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Intervista a La Voce
16 agosto 2012
A cura di Davide Brullo
Eccolo, il Romanzo dell’Estate. Si chiama, non ridete in faccia al giornalista, Racconto d’Estate, lo ha pubblicato da pochissimo l’editore Marietti 1820 (Milano 2012, pp.300, Euro 22,00), lo ha scritto Leonardo Bonetti, uno su cui giuro fermamente, per cui metto il torso estetico sul fuoco, che prosegue un lavoro unico, comprendente già due romanzi, Racconto di primavera e Racconto d’inverno. La trama? Alcuni improbabili, bellissimi eroi, di radiante innocenza, «intraprendono il viaggio della loro vita in un concentrato di comicità e avventura attraverso il Mediterraneo e fino al cuore dell’Africa». Perché? «Sono alla ricerca del punto dove finisce l’estate». Con Bonetti, ho impalcato un breve dialogo. Eccolo. (D.B.)
Un-due-tre, inverno, primavera, estate: ora cosa fai, come lo compi il lavoro?
È il momento più delicato, il momento della conclusione di un ciclo. Quello delle stagioni, nel caso specifico. Dopo l'inverno, la primavera e l'estate lo sbocco sembrerebbe scontato: non c'è che l'autunno. Eppure la questione non è di poco conto. Chi scrive è infatti consapevole che un'opera, pur determinandosi nel proprio compimento, possiede un carattere intimamente mobile e sfuggente, in divenire; che, insomma, non è mai davvero compiuta. E, come questione ulteriore, che l'opera si costituisce, in fondo, dell'insieme di più opere. Ecco perché non potrà giungere a vero compimento ma, semmai, realizzarsi come cammino impegnato ad interrogare se stesso lungo i sentieri che via via lo accolgono o respingono.
Nel caso specifico, Racconto d'autunno è un corpo già scritto nella mia mente, già familiare. Ma rimane di fronte a me come un problema. Proprio perché un percorso non può essere concluso. Io, d'altronde, non credo nel traguardo, nel fine, nell'obiettivo. La vita non fa che rinnovarmi in questa convinzione.
Tra l'altro: tre libri, tre storie, tre linguaggi (nel primo c'era anche la composizione sonora). Esercizio di stile o di sprofondamento semantico?
I libri prendono corpo in me nella forma del linguaggio più che delle storie. È da lì che ha origine ogni esperienza di scrittura. In rapporto con una materia immaginativa e linguistica capace di generare situazioni e personaggi come fossero costellazioni di un nuovo mondo. Ogni capitolo di questo percorso è materia fatta di stile, di stili. Ma non si tratta di elementi strumentali o funzionali, bensì dei fondamenti stessi dell'esperienza creativa. E questo non può che avvenire ogni volta da angolazioni e punti di vista sempre diversi.
Cosa leggi, cosa t'interessa dell'arte attuale? E poi: cosa farai, ora, dal punto di vista musicale e letterario?
Sono un isolato, fondamentalmente. Rivolto soprattutto all'arte del passato. Per una diffidenza e un sospetto meritevoli di ben altre cause. Tra gli italiani contemporanei, comunque, seguo in aprticolare due autori: Antonio Prete e Michele Mari. Il primo, attivo soprattutto nel campo della saggistica e della poesia, mi sembra possedere uno sguardo e un respiro capaci di accogliere nella sua opera tutti gli elementi, terra e mare, albero e costellazioni; l'altro, narratore e prosatore di razza, mi colpisce per la sua pervicace volontà di ricerca linguistica senza esibizioni, segno di un coraggio non comune nell'affrontare la contemporaneità dal versante del postmoderno.
Per quanto riguarda me, invece, sto lavorando alla composizione e alla registrazione di due progetti musicali, il primo una sorta di correlativo soggettivo del Racconto di primavera in prosa, l'altro un controcanto ad una mia traduzione dall'Antico Testamento. Titolo: Il Libro di Daniele.
Ma altri progetti, altre scritture, altre ossessioni vanno affollando la mia scrivania. Segno di un'inquietudine creativa che non accenna a venir meno.
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Intervista a La Recherche
22 luglio 2012
A cura di Giuliano Brenna
Chi è Leonardo Bonetti?
Una persona affetta da inquietudine e tenerezza nei confronti della vita. Che cammina sulla riva dell'espressivo alla ricerca di un varco. Per dare fondo al nucleo d'energia avvertita intorno e dentro di sé.
Come ha iniziato a scrivere, e perché? Ci tratteggia la sua storia di scrittore?
Scrivo dai quindici anni, dal momento, cioè, in cui sono nato alla vita consapevole, non prima (sono un ritardatario, infatti). Ma agli inizi il mio approccio nasceva insieme a una predisposizione alla vaghezza e al gioco, in una mescidanza linguistica di musica e di poesia. Diciamo che il fascino sprigionato dalla parola vive per me nella sua risonanza materna, ancestrale e prelogica. E questo aspetto è ancora molto vivo all'interno della mia scrittura. Diciamo che l'espressività rappresenta per me una possibilità di congiunzione, esperienza e rifondazione del reale, del mondo. Di lì è venuto il resto, tra musica e poesia. Fino all'esordio in prosa; molto tardi, come dicevo, sulla soglia dei quarantasei anni.
Quali sono le voci ispiratrici della sua scrittura?
Le più profonde affinità sono legate alla poesia, a cominciare dal Tasso e dal Leopardi, per arrivare a Campana e a Sereni attraverso Baudelaire e i simbolisti francesi. Non disdegnando la scapigliatura nostrana. Di quest'ultima mi hanno sempre affascinato le incongruità delle premesse e degli esiti. Quella certa sciatteria o incompletezza sposata alle grandi ambizioni. E una sofferenza che quei poeti scontavano senza possedere la grandezza dei maestri. Quindi, sul versante della prosa, non posso non citare la grande esperienza del romanzo ottocentesco, tra la vastità dei russi e la sensibilità psicologica dei francesi. In Italia, per ciò che concerne il novecento, non posso dimenticare Verga, Tozzi e Svevo e, in seconda battuta, Pirandello. In Europa invece Mann, Proust, Joyce e Musil oltre, più di recente, a Bernhard e Sebald, che mi ha permesso di riscoprire il genio di Robert Walser. Tra gli italiani contemporanei cito Antonio Prete per la poesia e Michele Mari per la prosa.
Lei sta componendo una tetralogia di cui tre volumi sono già stati pubblicati: “Racconto d’inverno”, “Racconto di primavera” e “Racconto d’estate”, per Marietti. Come mai una tetralogia?
In realtà in origine non avevo chiaro il progetto complessivo. Mi muovevo nel piccolo raggio della parola, seguendola quanto più possibile con lo stupore delle sue mille scoperte. Appena scritto Racconto d'inverno, però, mi sono scoperto a immaginare e, quindi, a scrivere (quasi di nascosto) il Racconto d'autunno poi abbandonato e, a tutt'oggi, in fieri; quindi sono stato letteralmente sommerso dal Racconto di primavera che, bruciando le tappe, si è imposto quasi contro la mia volontà. Non è dunque l'aspetto logico e razionale il primum della mia ispirazione, ma semmai una rielaborazione di materiali spontanei, irriflessi, di cui poi, nel lavoro sussidiario, sono andato scoprendo agganci e rimandi più o meno espliciti. Ma la questione non è chiusa. Il Racconto d'autunno, infatti, sta tra le mie carte come un corpo freddo, di fronte al quale provo un dolore o una resistenza foriera di non so cosa. La questione, più in sostanza, è quella della compiutezza o compimento dell'opera. Si tratta di un problema avvertito intimamente, che frena o crea un attrito con la volontà di comprensione complessiva del reale che sta dietro allo sviluppo del ciclo delle stagioni. In termini più chiari: io non so se riuscirò a compiere quest'opera. E, immaginando che si tratti di un'affermazione troppo forte, nelle circostanze in cui mi trovo ad operare, prendo atto che c'è una parte di me che ostacola il completamento del disegno complessivo. Forse perché apparentemente troppo predeterminato. Ma non saprei dirlo con certezza. Del resto è anche vero che le richieste di quel "corpo freddo", del Racconto d'autunno già a sua volta iniziato, poi abbandonato e, ora, soggetto attivo, desideroso di cure, postulante di resurrezione, diventa a tratti straziante. Mentre il disegno complessivo pretende ogni mia attenzione. Insomma, in questo frangente devo interrogarmi più a fondo per impedire che gli aspetti inessenziali e le implicazioni inerenti la scrittura e la pubblicazione, interferiscano in modo deleterio sull'organismo dell'opera. Viviamo tempi in cui i condizionamenti non vengono tanto dall'esterno, o non solo dal cosiddetto "mondo", ma, con più evidenza e esizialità, dalle zone colonizzate della nostra anima. È lì che si combatte la battaglia più aspra. Una battaglia che prevede tregue solo molto brevi e mai risolutive.
Qual è il fil rouge che lega i suoi quattro romanzi?
Poiché la mia quadrilogia delle stagioni, o almeno l'impianto che ha assunto tale forma allo stato attuale delle cose, è anche una negazione della quadrilogia stessa, non ci sono connessioni che possano rimandare a un disegno evidente. Manca infatti una consecuzione drammaturgica di situazioni, vicende e personaggi. Il centro di questo lavoro è, semmai, nella scoperta del ciclo esperienziale come dimensione interiore, scoperta avvenuta ad un certo punto della mia vita. Direi suppergiù dopo i quaranta anni, e segnata dall'esperienza della paternità. In modo riduttivo potrei dire che diventare padre ha significato per me un allargamento degli orizzonti e un passo indietro dell'io lirico di cui ero andato facendo esperienza sin dalle mie prime prove di scrittura.
E allora il senso della quadrilogia appare, in fondo, come una direzione. Con i romanzi delle stagioni (che si determinano significativamente come "racconti", per essere precisi) ho la possibilità di illuminare da angolazioni diverse lo stesso nucleo duro, resistente, a cui fa riferimento l'espressione. Questo nucleo che, credo, ha a che fare direttamente con l'energia espressiva, un cuore del quale ho bisogno più che della bellezza stessa. Anzi, è proprio il rapporto tra bellezza ed energia che, nella vita come nell'arte, mi inquieta e mi attrae. Tutto questo avviene però nella continuità della focalizzazione interna: un io narrante, camera oscura della coscienza che si fa filtro, attraverso cui le vicende, i personaggi e le situazioni prendono corpo. Non si tratta, credo, di un espediente tecnico ma della stessa forma in cui è andato costituendosi questo cammino di scrittura. In quanto il bivio che si è posto di fronte al narratore è stato sempre quello della scelta tra due approcci opposti nei confronti della realtà: quello dell'indagine e quello dell'esperienza.
Quattro opere… richiamano alla mente Wagner, anche l’andamento delle stagioni può essere sovrapponibile all’Anello del Nibelungo; ritiene vi siano affinità fra la sua opera e quella wagneriana?
La tetralogia wagneriana è impiantata su una continuità drammatico-musicale che prevede svolte stilistiche solo parziali, salvo quelle dovute alla lunghissima gestazione dell'opera. Il mio ciclo, invece, è fatto di scarti anche bruschi dal punto di vista delle situazioni, delle vicende, dei personaggi e, ovviamente, degli stili. Ciò che è indubbio, comunque, è che l'elemento musicale, nel mio modo di scrivere, è sempre presente e avvertito.
Nella sua tetralogia si avverte un andamento sinfonico, è un effetto che lei insegue?
"Andamento sinfonico" mi sembra formula particolarmente adeguata, una notazione felice, soprattutto se rapportata alla varietà timbrica che è alla base di ognuno dei miei romanzi. Quella certa coloritura compiuta attraverso il linguaggio. La sinfonia viene giocata sui registri del colore, del tempo, dell'alternanza del ritmo e del respiro. Un desiderio di sperimentare l'intera gamma espressiva in vista della questione finale: l'energia che muove l'interrogazione intorno all'esperienza del vivere. Quell'elemento irriducibile con cui facciamo i conti ad ogni istante. Si tratta di un'interrogazione praticata nello stupore. Una mescolanza di stadi intellettuali ed emotivi che è alla base dell'esperienza poetica vera e propria. Così il lento, il moderato, il rapido, l'allegro, sono movimenti attraverso i quali si potrebbero trasporre altri aspetti di forma e sostanza narrativa, i colori e le loro sfumature (nero, verde, giallo, rosso), gli elementi (acqua, terra, aria, fuoco), i tempi verbali (passato remoto, imperfetto, presente, futuro), le fasi della vita (gestazione, parto, emancipazione, morte), le età (maturità, fanciullezza, gioventù, vecchiaia). Questa, credo, sia la sinfonia dei miei romanzi delle stagioni; a concorrere i leit motiv, le variazioni, gli sviluppi, le riprese.
Pensa che in un panorama letterario come quello italiano, frammentario e in cui molti lettori inseguono la novità, offrire un lavoro composito come la sua tetralogia possa “fidelizzare” il lettore alla sua penna?
Non credo che un'opera di ampio respiro possa oggi attrarre o, ancor meno, creare artificialmente un "pubblico". D'altronde la contraddizione di chi scrive appare evidente già in origine: si nega la realtà del lettore espellendolo dal proprio spazio privilegiato e sovrano (quello della propria scrivania), pretendendo poi che assurga a interprete del proprio mondo. Un mondo che non è più nostro nel momento stesso in cui lo licenziamo pubblicandolo. Eppure tale contraddizione, essendo esperienza imprescindibile, mostra una specificità drammatica davvero trascurabile. Perché è un'altra la questione davvero essenziale e impossibile da aggirare. Un motore tanto profondo da perdurare inalterabile nel corso del tempo. Mi riferisco alla qualità primaria di ogni autentica pratica espressiva, quell'urgenza che ha come correlativo l'esperienza del dono e dell'atto gratuito. Così che il rapporto tra scrittore e lettore è meno subdolo di quanto si possa credere. Esso nasconde, nonostante tutte le filosofie del sospetto e del cinismo oggi imperanti, un cuore tenero e indifeso, capace di una lealtà che gli scettici considererebbero d'altri tempi. Scrivere non è insomma atto deprecabile e narcisistico ma, semmai, dedizione a un'opera realizzata con amore e per amore. Se non crediamo in questo è impossibile ogni scrittura. Dobbiamo sconfiggere quella tendenza tipicamente moderna e, soprattutto, postmoderna, a costruire maschere di indifferenza atte a nascondere il cuore dell'umano: perché noi siamo la nostra scrittura.
Proust per evitare l’effetto “già visto” (o del sequel) cambiò i titoli di quei capitoli che dovevano essere Sodoma e Gomorra 3 e 4, lei non teme lo stesso effetto proponendo quattro titoli così simili? (Capisco che nell’economia dell’opera deve essere così, sto cercando di immedesimarmi in un lettore medio che scorre distratto i titoli).
Il lettore esiste nel momento stesso in cui ci dimentichiamo di lui. È così che otteniamo il suo rispetto. Quando scriviamo, infatti, il lettore non c'è o, per meglio dire, viene trascinato con noi nella fatica della scrittura prima di divenirne il lettore. A ritroso, per così dire, anche lui scrittore come noi prima di divenire se stesso. Così come noi, terminato il nostro compito, ormai sovrani spodestati, siamo presi per mano da coloro che ci leggono iniziando un cammino intorno e all'interno del testo.
Le esigenze legate all'effetto di un titolo su un ipotetico lettore rappresentano in fondo un aspetto secondario, esterno, seppure rispettabile. E del resto è l'opera stessa ad imporle un titolo piuttosto che un altro.
A questo proposito, esiste un “lettore ideale”?
Non credo a una figura dai connotati stabiliti una volta per tutte. L'esperienza della lettura è così vasta e implica ogni volta un cambiamento così profondo e sottile, che il suo profilo mi appare più nelle forme del divenire che della fissità.
Oltre alla tetralogia in quali altri lavori è impegnato?
Ho scritto un libro di meditazioni o aforismi o frammenti in prosa poetica dal titolo A libro chiuso. Opera che è stata pubblicata nel marzo scorso e ha ricevuto un importante riconoscimento con il Premio Montano. Prossimamente uscirà per Raffaelli la mia traduzione de Il libro di Daniele, dall'Antico Testamento. Intanto traduco anche da I fiori del male di Baudelaire, un'esigenza che sento forte, non legata a progetti editoriali. Quindi altre scritture, dalla poesia alla prosa, qualche saggio (uno su un racconto di Calvino da Le Cosmicomiche che uscirà prossimamente su L'Illuminista), un'altro sull'ultimo libro di Antonio Prete, Se la pietra fiorisce, in pubblicazione sul prossimo numero de l'immaginazione per Manni.
Ci vuole parlare di “A libro chiuso”?
Il libro è per me legato a un'esperienza che affonda nell'infanzia. Un totem e un mistero legato alla sua sostanziale insondabilità. Da subito ho vissuto il rapporto con il libro come un desiderio di scoprire il segreto che custodiva. Sentivo che qualcosa di importante e profondo sarebbe venuto dall'esperienza della lettura. Ma ogni volta dovevo rimandarne gli esiti ad un punto successivo. C'era una delusione e nello stesso tempo uno stimolo imprevisto a spingermi di nuovo verso il libro dopo averlo chiuso. E mi sono reso conto che a distanza di tempo, di molto tempo, il libro chiuso, finito, abbandonato nella libreria, aveva operato in me senza che me ne rendessi conto. Da qui è nata l'esigenza di ripercorrere in una serie di meditazioni o aforismi la linea iterativa, quasi liturgica, che stava alla base del mio rapporto col libro, della mia riflessione intorno alla figura del libro.
Essenziale, a questo proposito, è stata la collaborazione - una sorta di controcanto sapienziale - con Ettore Frani, pittore ed artista cui una lunga consuetudine e un rapporto umano e di ricerca mi legano profondamente. È stato lui ad interpretare la partitura immaginale di questo lavoro. Così che le riproduzioni delle sue opere, create in un rapporto di autonomia e nello stesso di risonanza con il testo, stanno al centro del volume come cuore vivo e prodigio capace di rendere questo mio lavoro davvero unico. Seppure umile e piccolo e indifeso.
Cosa pensa dei premi letterari? Uno scrittore li può considerare come traguardi o sono solo bei momenti in un percorso?
I premi sono, per me, un segno della realtà di quanto vado scrivendo, ulteriore presa d'atto che il corpo dell'opera è vivo. Dapprima c'è la pubblicazione, poi il contagio nell'immaginario dell'altro, del lettore; quindi il riconoscimento ad opera di una giuria scelta. Ma questo, ovviamente, non rappresenta un traguardo. L'opera è un cammino fatto in piena autonomia, e noi non abbiamo più alcun potere su di essa. È lei, semmai, a tenerci in scacco, a segnare il punto dei nostri limiti, delle nostre insufficienze. Conducendoci, attraverso l'eperienza di chi ci è vicino - lettore, critico o giurato - lungo un percorso imprevedibile.
Quali sono gli obiettivi che si prefigge con la sua scrittura?
La scrittura, credo, non può avere obiettivi. È interna a se stessa pur non essendo mai puramente autoreferenziale. Nel senso che nutre in sé la sua forza e la sua giustificazione vivendo in un rapporto autentico con ciò che è vivo e profondo. Per questo è possibile che esperienze tanto intime come quelle dell'espressivo possano divenire universali e valide oltre i recinti delle epoche storiche.
Che cos’ha di caratteristico la sua scrittura, rispetto a quella dei narratori suoi contemporanei?
Il fatto è che non mi considero un vero e proprio narratore ma, semmai, una persona che cerca attraverso il linguaggio la via dell'espressivo. E per far questo intraprende percorsi artistici veri e propri, quelli dell'artifex, paziente artigiano alle prese con la materia da plasmare. Ma nel corso dell'opera - pur essendo tale pratica un valore assoluto fatto di amore e dedizione senza la quale l'espressivo resterebbe un puro sfogo spontaneista - non dimentica che c'è un prima della forma, un prima della scrittura, momento che rappresenta il cuore misterioso e originario dell'umano. È in questo senso che la contraddizione dello scrivere mi pone su vie apparentemente diverse da quelle di altri scrittori. Sebbene io creda che l'espressivo sia un fiume già scavato, giocato su due sponde, fra tradizione e infrazione, tra lingua materna e lingua ufficiale. E che questo valga per me come per tutti quelli che si trovano ad affrontare tale esperienza.
Come avviene il suo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità?
Scrivere è vivere. Sebbene vivere non sia, propriamente, scrivere. E allora non esistono momenti e luoghi, perché tutti i luoghi e tutti i momenti sono già scrittura. E dirò di più: ogni essere umano scrive, ma sulla sabbia, nel cielo, su uno specchio d'acqua. Ciò che distingue le pratiche della scrittura sono le scelte iniziali e quelle di lungo respiro; quale materia, quali corpi, quali mondi. Perché lo scrittore, a un certo punto - e a me è avvenuto un po' contro la mia volontà, avendo tentato di resistere contro l'iscrizione a tale categoria - si rende conto che ha operato su una pietra, ha inciso una parola definitiva, che sfida il tempo, e allora deve prendere atto che questa è già in parte la sua condanna. La scrittura potrebbe vendicarsi su di lui.
E allora, poiché scrivere è vivere, e questo è vero per me come per ogni altra persona lungo questa via, sul corso di questo cammino, si continua a farlo in ogni luogo, sempre e comunque. Si osserva la realtà e se ne fa esperienza dallo speciale punto di vista di chi incide la pietra con la parola.
I modi nei quali si andrà via via realizzando materialmente tale scrittura potranno essere i più disparati: computer, taccuino, foglio di carta, libro. Ma da quel momento scrivere è vivere.
Ha mai pensato a “Racconto di primavera” come a un film? Le piacerebbe vedere i suoi personaggi muoversi su uno schermo?
No. Anche se ho realizzato personalmente alcuni video nei luoghi della vicenda, esperienza esaltante e che ha operato su di me una fortissima suggestione. Ma un film, un lungometraggio di Racconto di primavera non è entrato nella mia immaginazione. Cosa che invece è avvenuta per il mio primo romanzo, Racconto d'inverno. Se dovessi pensare a un'opera cinematografica a partire da uno dei miei libri, infatti, penserei senz'altro a quest'ultimo.
Ha qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensa, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?
Credo che ogni mezzo capace di dare spazio alla creatività e all'espressione sia il benvenuto e debba essere utilizzato nel modo più virtuoso.
Senonché il problema della scrittura in rete è legato, a mio avviso, al "rumore" che ne determina il contesto di fondo. La letteratura è un'esperienza intima, di riflessione, c'è in essa un aspetto persino religioso, e gli strumenti della moderna tecnologia stimolano, invece, la velocità e la connettività su più livelli, sacrificando uno degli aspetti essenziali della lettura: il silenzio. Senza quest'ultimo è inevitabile che si legga più con gli occhi di un pubblico che con il cuore di un lettore.
Il libro, ritengo, è insostituibile proprio perché non permette distrazioni. La sua natura rimane fondamentalmente "dispotica" e totalizzante. Mentre la lettura attraverso gli strumenti che presiedono alla rete si struttura secondo una orizzontalità che muove a una continua distrazione.
Per questo penso che il libro trionferà, ma solo nell'intimo della coscienza, e soprattutto senza bisogno di trionfalismi.
Agli autori che pubblicano su LaRecherche, invece, dico: concentratevi sulla vostra opera e non dedicatevi ad altro. Fate il vostro lavoro con dedizione e pazienza. Di lì, ne sono certo, verranno le scoperte e le sorprese più durature.
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Intervista a Torino Libri
25 aprile 2012
Un romanzo per ogni stagione
L’autore Leonardo Bonetti con due prestigiosi romanzi
“Racconto d’inverno” e “Racconto di primavera” due romanzi dal titolo affine, ma che si distanziano con storie diverse ambientate in due epoche differenti.
Vincitori di prestigiosi premi letterari tra cui il Nabokov e il Carver che garantiscono sulla qualità dei due lavori dell’autore romano.
Vorrei soffermarmi sul primo romanzo, Racconto d’inverno, un libro che mi ha colpito profondamente per la storia narrata dal protagonista, uno sbandato in fuga da una guerra di cui non si conoscono i fronti, né chi siano i nemici, né in quale luogo si svolga l'azione. Si intuiscono gli stati d’animo dei protagonisti e un gelido inverno narrato dall’autore con esemplarità, quasi con stile poetico. Lo sbandato in fuga si rifugia in una faggeta dove si nasconderà dentro una casa abitata da un uomo misterioso ed enigmatico.
Un romanzo scorrevole con una storia carica di tensione e dal finale mozzafiato.
Ma chi è Leonardo Bonetti e com’è nata questa passione per la scrittura?
In realtà scrivo da tempo immemorabile. E come molti ho iniziato con la poesia. Le mie prime passioni, Leopardi e alcuni esponenti della scapigliatura di fine ottocento. Più in particolare Praga, Tarchetti e Camerana. Tramite, in quest'ultimo caso, il monumento poetico di Baudelaire che, per quanto mi riguarda, non tramonta mai; proprio in questi giorni, infatti, si è affacciata in me l'esigenza di tradurre alcune delle sue poesie da I fiori del male. La mia, si direbbe, è una formazione soprattutto letteraria. Ma anche musicale. Quest'ultima coltivata ai margini, lungo un percorso non accademico. È proprio dal rapporto tra queste due vie dell'espressivo che ha avuto inizio la mia fioritura in prosa degli ultimi anni.
Parliamo del tuo romanzo d’esordio: Racconto d’inverno.
Dicevo della musica e della letteratura. In realtà il mio romanzo d'esordio, Racconto d'inverno, è nato dopo un fallimento e una rinuncia. Quello che mi ero proposto, infatti, era una rilettura e un adattamento musicali del Racconto d'autunno di Tommaso Landolfi, romanzo del 1947. Ma il mio tentativo si è arenato dopo qualche mese. Sentivo che la strumentazione e le risonanze landolfiane mal si adattavano alle mie suggestioni musicali. E proprio da questo fallimento ha preso forza in me la convinzione che avrei dovuto riscrivere il romanzo. O meglio, che avrei dovuto riscrivere un mio romanzo a partire dall'incipit e dal clima interiore di quel libro. Che, per me, rimaneva un testo centrale non solo per la mia formazione letteraria ma anche per la storia letteraria del secondo novecento italiano. Racconto d'inverno, quindi, ha preso le mosse dalla rinuncia a musicare il Racconto d'autunno landolfiano. Subito dopo questo chiarimento, infatti, alternandola alla scrittura del romanzo, sono andato componendo una lunga suite musicale dallo stesso titolo, pubblicata dall'etichetta francese Musea nel 2009. Aggiungo solo che un'ultima suggestione ha giocato il film di Andrej Tarkovskij Stalker. La sua zona, con quanto di misterioso e di arcano poteva evocare, risuona ancora nella casa del mio romanzo.
Dentro Racconto d'inverno, ovviamente, ci sono anche tante altre cose che sarebbe lungo e difficile sintetizzare qui. Ma ho voluto mettere nero su bianco i debiti e i prestiti più importanti di questo mio esordio.
Il tuo nuovo romanzo cambia stile. Due parole su questo libro.
Racconto di primavera è una vera e propria svolta, dopo l'inverno. L'atmosfera del libro prende avvio, mi sembra, da una nota sottile e luminosa ma non per questo meno inquietante. Questo timbro potrei definirlo magico-fiabesco. Una dominante che ha agganci diffusi in tutto il testo, ma che si coagula nei "cori" che aprono le tre parti del libro. Un "coro" è consuetudine drammaturgica, e in un romanzo lascia perplessi. Eppure l'architettura di Racconto di primavera ha una sua evidenza. Perché i tre cori in cui gli alberi e le bambine dialogano tra loro come in un sogno o in una fiaba, si connotano con sfumature, registri e colori diversi, e non fanno da controcanto solo in modo esornativo. Infatti, dopo la lettura dell'intero libro, sono proprio gli echi suscitati dai cori ad "aprire" a una loro funzione narrativa oltre che lirica.
Questa la "poesia", se così posso dire, di Racconto di primavera. Poesia diffusa, ovviamente, anche all'interno del corpo del libro. Per quanto riguarda la "prosa", invece, diversamente dal mio primo romanzo, appare radicata in un momento storico preciso (il 1989) e in un luogo esplicito (tra Arcevia, Ancona e Urbino, nelle Marche), con personaggi che possiedono un rilievo realistico quasi del tutto assente nel precedente Racconto d'inverno.
Uno dei temi principali, ma anche qui non sarebbe facile sintetizzare, è senz'altro quello della crisi di un mondo (la fine delle ideologie) visto attraverso la crisi di un personaggio, il laureando in giurisprudenza protagonista della vicenda. Questo giovane orfano, come lo ha definito Walter Pedullà, vive la sua educazione sentimentale con i pochi strumenti a disposizione: una gelosia e una passione imperfette per la giovane ragazza con cui, da circa un anno, ha una relazione. La fine di questo suo rapporto sarà lo strumento attraverso il quale prenderà coscienza della dimensione più ampia della sua crisi.
Come avrai notato dalle mie precedenti interviste, cerco di evitare le tradizionali domande, tentando di entrare nel vero lavoro di un autore con tutti gli imprevisti, le difficoltà e cercando di raccogliere preziosi consigli da offrire al pubblico.
Iniziamo con un fattore che lega i tuoi romanzi ai premi che hai ricevuto. Pensi che le classiche “fascette dorate” che viaggiano con la copertina, garantiscano la qualità di un romanzo e quindi le vendite?
Se devo essere sincero, non credo che ci si possa affidare solo alle onorificenze per misurare le potenziaità commerciali di un libro o, tanto più, per valutare le sue virtù intrinseche. Ma i riconoscimenti rappresentano pur sempre un'importante occasione di confronto all'interno di quella particolare catena di relazioni fatta di persone che scrivono, pubblicano e leggono. I premi possono essere un aiuto o una conferma, ma certamente non possono rappresentare l'orizzonte ultimo dentro il quale un libro deve muoversi.
In quest’epoca di scelte “disperate” pur di pubblicare si scelgono editori che accettano contributi da parte dell’autore. Tu come sei giunto alla pubblicazione?
Il mio è stato un percorso classico ma non so quanto rappresentativo. Ho inviato a dieci case editrici medio-piccole il mio bravo manoscritto. Poi ho atteso. La cosa straordinaria è che dopo appena due settimane mi è arrivata la telefonata di Giovanni Ungarelli, direttore editoriale della Marietti. Un tempo straordinariamente breve e che non mi sarei aspettato. Diciamo che sono stato fortunato: non è facile mettere insieme un paio di coincidenze come l'attenzione di un direttore editoriale e la sua lettura pressoché immediata. Ma da lì alla pubblicazione sono comunque passati due anni. Perché una virtù fondamentale, in questo campo, è la pazienza.
Il secondo romanzo talvolta si rivela una “affermazione” per un autore. L’uscita del tuo nuovo romanzo come ha cambiato il tuo mestiere di autore?
Diciamo che se con Racconto d'inverno la mia esperienza è stata quella di un felice outsider, con Racconto di primavera, come ha scritto giustamente Davide Brullo, ho preso coscienza di essere davvero uno scrittore. E contro la mia volontà, sia chiaro. Non mi sono mai sentito né mi sento uno scrittore. Ma ho dovuto cedere alla consuetudine per cui chi scrive viene così definito.
Parliamo di questa nuova generazione di libri che sta rivoluzionando il modo di leggere: l’E-book. Un motivo particolare sul fatto che i tuoi romanzi non sono ancora disponibili nel formato digitale, e cosa pensi di questa nuova frontiera tecnologica?
Non credo molto negli ebook. Anche se non disdegno la lettura in digitale. Il problema è che l'ebook parte sconfitto già in partenza. Sebbene sarà probabilmente destinato a vincere la sua sfida. Perché la sua sconfitta non sarà numerica o quantitativa, ma sostanziale. Gli strumenti della moderna tecnologia stimolano la velocità e la connettività multiple. Creano, se così posso dire, "rumore". Mentre la lettura, il libro, la dimensione profonda che rappresenta la vera ricchezza dell'esperienza del leggere, hanno bisogno dell'esatto opposto: silenzio, solitudine, limite scavato dentro la pagina. L'ebook, quindi, vincerà. E per questo avrà perso. Perché sarà terreno principe di una lettura massificata, fatta con gli occhi di un pubblico più che con il cuore di un lettore. Il libro, infatti, nei suoi limiti precipui, è insostituibile, in quanto non permette distrazioni. La sua è una natura fondamentalmente "concentrata". Mentre la tecnologia degli strumenti che presiedono alla lettura digitale è "fatta" di distrazioni, e la loro è una natura "connessa", in "multitasking". Non possiamo che cedere di fronte alla potenza di tali strumenti. Per questo, alla fine, sarà il libro a vincere. Anche se, ovviamente, le varie tipologie di lettura non si escluderanno a vicenda. Quello che voglio dire, semplicemente, è che nella solitudine della nostra coscienza sarà il libro a prevalere con il suo silenzio e senza bisogno di trionfalismi.
Racconto d’inverno e Racconto di primavera: a quando l’uscita di “Racconto d’estate”? (nuovo romanzo)
La tua domanda è tempisticamente perfetta. Racconto d'estate verrà infatti pubblicato a giungo prossimo sempre dalla Marietti di Milano. Nel frattempo, appena due settimane fa, è uscito un mio piccolo volume di meditazioni a margine intorno alla figura-libro con una breve introduzione di Antonio Prete. Una sorta di piccolo viaggio dentro l'esperienza della pagina scritta composto di frammenti, meditazioni, immagini secondo un ritmo che è del pensiero e, nello stesso tempo, della musica del pensiero. Il suo titolo è A libro chiuso e, nella sua anima, è percorso da uno spirito poetico oltre che speculativo.
Un consiglio da lasciare agli autori esordienti.
La scrittura è una pratica che ha bisogno di pazienza, dedizione, cura. Si fonda sul rapporto profondo tra noi e la pagina scritta, tra noi e la pagina ancora da scrivere. È fatta di fiducia nell'espressivo e di cura d'artigiano. I due momenti stanno tra loro connessi. Per scrivere dobbiamo innanzitutto sapere che non esistono scopi o fini esterni. Meglio fare chiarezza sin da subito e non lasciarsi sedurre da velleitarismi narcisistici. Quello che conta è dedicarsi solo a questo compito infinito che è scrivere.
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Intervista a La Voce
A cura di Stefano De Vita
Tutti possono essere scrittori? Il segreto è l’umiltà?
Tutti costruiscono un linguaggio fatto di cose scritte nel cielo, sulla sabbia. Si è sempre scrittori orali, se così posso dire. Ma lo scrittore vero e proprio è colui che crede nel potere della parola incisa, definita, pur sapendo che c’è una saggezza ben più grande in chi decide di non scrivere. Lo scrittore è un non saggio che si misura in ogni momento con la saggezza. È un perso nel tempo e nello spazio che vuole trovare una via impossibile, indecifrabile, infondata. E per far questo sa che bisogna essere armati di un’umiltà scavata dentro l’anima, di una “timidità” nei confronti delle cose e del mondo.
Cosa le danno la musica e la scrittura o cosa vuole trasmettere attraverso di esse?
È l’espressione che mi interessa prima di ogni altra cosa, in ogni forma o linguaggio. E la scrittura e la musica, da questo punto di vista, mi paiono saldate indissolubilmente a un sentimento di matrice materna, la cui origine risale all’infanzia, a quel fluire musicale precedente il logos propriamente detto. Bene, in quell’affetto antico, remoto, ancestrale, risiede per me il fascino profondo della parola e del suono. È compito della scrittura e della musica aderirvi per rispondere in modo sensibile, simbolico e razionale a un’interrogazione inesausta sul senso stesso del vivere. Anzi, di più, sul senso dell’essere e dell’esistere nei modi che via via sperimentiamo durante la nostra vita. Il senso della musica e della scrittura, dell’espressione permanente in cui ritengo si ponga l’atteggiamento umano di chi scrive, non può quindi trasmettere nulla se non il cuore vivo del mondo rappresentato, il suo mistero indifeso. E di fronte a questo mistero rispondere sempre con tutto lo stupore di cui si è capaci, col disarmo necessario a rinsaldare ogni forza dentro di noi.
Può la scrittura essere una via di fuga o meglio un rifugio da una realtà amara?
La creatività e l’espressione appaiono spesso come vie di fuga di fronte a un sentimento di inadeguatezza e di dolore per una realtà considerata ostile o, in parte, incomprensibile. Ma non penso mai alla scrittura come a una vera e propria fuga. Almeno in senso letterale. Semmai il contrario. E ritengo l’espressione come una risposta piena di coraggio e di fragilità. E la parola scavata, il segno che rimane, come un dono al quale la comunità si aggrappa per interrogare con più pienezza il senso del vivere.
I sentimenti sono una cosa intima e profonda, può la scrittura o la musica esprimerli? Si è mai trovato nella situazione mentre componeva che le parole o le note non fossero sufficienti ad esprimere ciò che provava?
Mi interrogo spesso sui limiti della scrittura. Perché prima di ogni cosa, per chi scrive, c’è la presa d’atto che la parola è una dismisura: o insufficiente o eccessiva. E che con questa consapevolezza bisogna fare i conti da subito per affrontare senza ripari la questione dello scrivere. Ma se mi interrogo sui limiti della scrittura, ne riconosco anche la virtù immortale. Perché se la parola è insufficiente, solo dalla parola, comunque, ogni cosa può avere inizio. Solo da una fiducia profonda nell’espressione, nel tentativo approssimato che si chiama poesia o letteratura o musica, si può scommettere sulla vita.
Il vero scrittore è davvero un debole?
In realtà chi tenta la scrittura, assumendo su di sé ogni debolezza, si rende fertile, luogo di accoglienza di un’energia e di una pienezza che non hanno eguali. L’apparente gracilità si trasforma dunque in una forza colossale, capace di dar voce all’essere sensibile del mondo, allo spirito umano delle cose. Perché ogni vera forza si costruisce sulla debolezza. E si tratta di una forza che non si può spendere, sulla quale non si può edificare alcuna vittoria. Nello scrivere, infatti, si concentra la passione di ogni sconfitta. Per questo, allo scopo di sostenere tutto ciò, è necessario attingere a un coraggio che nessun uomo possiede in sé, ma che è frutto di un intero popolo, di un’intera tradizione.
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Intervista al social network aNobii
a cura di Calli
Leonardo Bonetti, sono Calli e ho avuto il grande piacere di condurre un gruppo di lettura nell’ambito del social network aNobii sul Suo bellissimo libro Racconto d’inverno. Innanzitutto Le esprimo da parte del gruppo i nostri più sinceri complimenti per il Suo avvincente romanzo, La ringrazio di aver seguito puntualmente gli sviluppi della discussione del nostro gruppo di lettura e di aver voluto concederci questa bellissima opportunità di intervistarLa.
Abbiamo raccolto tra i partecipanti del gruppo e altri lettori che ci hanno fedelmente seguito nel nostro avvincente percorso di lettura, iniziato il 7 settembre del 2009 e concluso, significativamente, il 21 marzo 2010, il giorno dell’equinozio e, dunque, della fine dell’inverno, una serie di domande, che ora Le formulerò.
1) Racconto d’inverno
misterioso e affascinante, a tratti inquietante, ha già avuto varie ristampe senza aver avuto promozioni particolari con un grande gradimento da parte dei lettori.
Il libro infatti è stato scelto dai lettori come uno dei dieci libri più gettonati del 2009
nel sondaggio al tempo effettuato da “Il Sole 24 Ore” sul “miglior libro del 2009”, con un analogo riscontro presso i lettori del nostro social network aNobii nel gruppo de “Gli Imperdibili”
ciò in linea con i riscontri delle vendite da parte della Casa Editrice Feltrinelli .
Anche sotto il profilo della critica Racconto d’inverno si è brillantemente distinto, riportando importanti riconoscimenti nei premi “Carver”, “Siderno”, aggiudicandosi il Premio speciale targa "il Molinello" e il 2° premio nel Concorso Nazionale Letterario “Garcia Lorca” - 20a edizione 2009, e soprattutto ha avuto l’assegnazione del prestigioso “Premio Nabokov” per l’anno 2009 . Altri riconoscimenti sicuramente si profileranno all’orizzonte.
Leonardo Bonetti si aspettava un così ampio successo per il suo libro di esordio?
Inoltre anche una piccola “provocazione”.
Racconto d’inverno ha suscitato nel nostro social network in generale e nell’ambito del nostro gruppo di lettura interventi e commenti molto positivi, pur riscontrandosi all’interno del nostro gruppo di lettura, e nel mondo anobiano complessivamente, in misura molto limitata, qualche indicazione di segno contrario. Su tale aspetto ci siamo interrogati anche nel corso del gruppo di lettura, formulando varie risposte.
Perché secondo Lei Racconto d’inverno suscita reazioni così opposte nella lettura: entusiasmo e passione, da un lato, indifferenza o reazioni anche accese nei confronti del libro, dall'altro ?
Il libro ha senz’altro avuto un riconoscimento superiore alle attese. Si tratta infatti di un romanzo particolare, dalla scrittura densa, che segue strade insolite. E in parte questo potrebbe spiegare reazioni tanto contrastanti.
Infatti immagino che una ricerca come quella di Racconto d’inverno, con un narratore che non strizza mai l’occhio al lettore, possa rappresentare una difficoltà in più, lasciando, insomma, smarriti di fronte allo smarrimento. La posizione del lettore di fronte al libro, infatti, è alquanto scomoda.
Ma la genesi di Racconto d’inverno necessita di un preambolo. In origine la mia intenzione era di musicare il Racconto d’autunno landolfiano che rappresentava, per me, un punto di partenza essenziale. Ma dopo molti tentativi infruttuosi mi sono reso conto che avrei dovuto riscrivere il racconto a partire dall’incipit landolfiano, secondo uno sviluppo che prendeva direzioni diverse, sia dal punto di vista stilistico che da quello narrativo o simbolico. Il percorso della mia ricerca era segnato da una necessità di cui all’inizio non intravedevo il senso più vero. Si trattava di intraprendere una via per aggredire il cuore della contemporaneità inserendomi nelle contraddizioni apertesi storicamente nell’ultimo trentennio. Nel paesaggio vasto in cui viviamo, di dimensioni globali, inimmaginabile solo trenta anni fa, abbiamo subito la trasformazione della postmodernità senza né soste, né gradualità. Siamo passati di dimensione sprovvisti degli strumenti necessari, e senza fare un cammino, senza sperimentare alcun passaggio. Semplicemente scavalcando una linea dentro un’aula dalle dimensioni assolute. In questo, la crisi del nostro tempo. La dissoluzione stessa che riusciamo a vivere sia in senso orizzontale che verticale.
2) Perché i personaggi sono senza nome? Anzi caratterizzati con un epiteto: bambino-guida, sbandato, sorella? E perché la voluta indefinitezza dei luoghi e del tempo in cui si svolge la storia?
Peraltro, sotto quest’ultimo profilo, tra le varie iniziative del gruppo di lettura come le immagini dei titoli attribuiti ai capitoli, la “mappatura della casa”, ci si è voluti cimentare in una “periodizzazione” (per così dire) delle vicende del fuggiasco, cercando di individuare i giorni dell’anno in cui si svolgono, in una sorta di “calendario”. Che ne pensa di tale operazione, comunque elogiabile ?
In Racconto d’inverno non sono presenti le coordinate spazio-temporali. In sostituzione due dimensioni: la montagna come confine e il tempo come ciclo. È da qui che parte il mio tentativo di ricerca. Anzi, potrei dire che la mia scrittura ha luogo a partire dalla “scoperta del tempo” avvenuta in una certa fase della mia vita. Nell’essenzialità di un nuovo rapporto con il tempo, dunque, il bisogno di partire dal rifiuto di un periodo storico definito e, di conseguenza, di una geografia riconoscibile. Ne discende una mancanza di fiducia nel rapporto nome-cosa. Perché su questo deserto di nomi si aprono possibilità inusitate di vita. È la vita stessa che si spoglia di belletto e va all’essenza. Solo in questo quadro estremo era possibile far saltare i riferimenti, non concedere l’equivoco di una interpretazione che potesse aiutare o consolare.
Per ciò che concerne la mappatura la intendo come un tentativo di prendere possesso della casa dal punto di vista dello sbandato. Che è poi il punto di vista dal quale il lettore procede in un’evoluzione piena di insidie. Il rischio della costruzione di una mappa, pur rispondendo ad un incessante desiderio di disinnescare la fonte di inquietudine presente nella casa, si installa nel lettore come una sfida pericolosa. Bisogna farci i conti ma rimandarne gli esiti per evitare di depotenziare il cuore stesso del romanzo.
Il calendario della storia risponde, credo, alla stessa esigenza spostata dal punto di vista del tempo. Permangono le tensioni verso uno scioglimento del potenziale più minaccioso del libro. D’altronde, leggendo la discussione del gruppo, è evidente che il riferimento al solstizio d’inverno diviene centrale, il fulcro stesso della trasformazione in atto nel protagonista e, forse, nel lettore stesso.
3) Il libro appare in Racconto d’inverno un oggetto importante. I libri infatti nel Romanzo fanno più di una apparizione e ne esce sottolineata la loro centralità. Nel contempo peraltro tale elemento rimane anche sfuggente.
Qual è dunque il valore dei libri nel Racconto e in generale per Leonardo Bonetti?
Un libro o la letteratura può salvare l’essere umano? E in che misura?
Inoltre, con riferimento a due snodi importanti del testo, qual è il significato profondo dello sfacelo (dovuto al tempo, alla polvere, ai topi, alla luce…) cui è destinata l’immensa “Biblioteca” scoperta dal fuggiasco nella Casa nel Capitolo XXIII? E, forse quasi in contrapposizione, qual è il significato dei libri che compaiono improvvisamente sotto il materasso nella stanza della guida, concessa dall’ospite allo sbandato, indubbiamente libri “salvati” da quello che avrebbe dovuto essere il “loro posto”?
Può darsi, nel mistero dei riferimenti sul libro del Rinascimento annotati dalla guida con le note sulla belladonna e sull’elleboro, nei capitoli XXVIII e XXIX, vi sia un messaggio cifrato per lo sbandato e per lo stesso lettore?
Oppure le frasi possono essere rispettivamente attribuite con una sorta di “sequenza numerica” (in base a quanto si può desumere) ai tre personaggi secondo tale ordine: n. 7 e n. 14 alla guida, n. 12 e n. 18 allo sbandato e n. 21 e n. 27 alla sorella del bambino canuto, con la frase del n. 19 che fa da conclusione ?
Questa domanda mi sembra di particolare interesse. L’importanza e il valore del libro come oggetto di esperienza sono fuori discussione. Si tratta però di un punto tanto essenziale quanto misterioso. Indagarlo è necessario e illusorio. Non altrimenti che per i tentativi ermeneutici riferiti a parti più specifiche del testo. D’altronde dalla critica all’ermeneutica occorre partire per sperimentare un approccio diverso al concetto stesso di libro.
La riflessione su questo tema è particolarmente urgente, per me, soprattutto in questo periodo. Vi ringrazio quindi di darmi l’occasione per parlarne. Sono infatti alle prese con la scrittura di aforismi sul “libro”. Il titolo di questo progetto è, per ora, A libro chiuso. Perché questo titolo? Non posso che riandare ad un concetto geloso e segreto dell’esperienza del leggere. Sin dalla mia infanzia. E ad una sorta di sfasatura tra testo e “risonanza”. C’è, insomma, del tutto evidente, un salto o una frattura tra la decifrazione di un qualsiasi corpo od organismo di parole e il senso ultimo del medesimo. E c’è un “errore” che ne determina in modo irrevocabile la sua stessa consistenza. Un libro, insomma, è sempre “dimenticanza”, cono d’ombra proiettato dalle e sulle parole, “pagina che chiude pagina”, “recinto di ombre più che di luce”. È proprio “a libro chiuso”, infatti, che il libro agisce in profondità dentro ognuno di noi. Non è nel testo come funzione aperta e razionale che si fonda la potenza più intima, in grado di costruire la nostra esperienza di “libro”. È nell’oblio del libro che si origina la fermentazione ultima della sua esperienza. In negativo, allora, è proprio in quanto di irriducibile resiste all’interpretazione sicura che si annida ogni possibilità di vita futura per il libro. Un libro (il libro dei libri) scava dentro di noi un’aula vastissima. Costruisce ogni riferimento ai margini della pagina, nei punti di intersezione meno sicuri, meno confortevoli.
E allora, in Racconto d’inverno, la presenza del libro è sempre riferita a un ambito pieno di ombre (figure “partorite” da una zona oscura, recluse in parti inaccessibili, destinate all’oblio e alla morte) eppure, al tempo stesso, fonte di un sapere mai confinato nei recinti della conoscenza funzionale, misurabile, riconoscibile (le frasi e i dipinti, un procedere linguistico che avanza per folgorazioni, lucentezze improvvise).
Ogni tentativo interpretativo è dunque imprescindibile ma, al tempo stesso, destinato ad un fallimento salutare. Nel senso che, se gli esiti di questa ricerca appaiono fragili e insicuri, il percorso stesso, generatore di domande e interrogativi tra i più profondi, consiste di una necessità irrinunciabile.
4) Un acuto osservatore, tra i partecipanti del gruppo di lettura, si è imbattuto, alcune settimane fa, in un programma in cui si parlava della rocca di Fontanellato, piccolo paese dalle parti di Parma, che racchiude una stupenda camera picta affrescata dal Parmigianino col ciclo di Diana e Atteone
I riferimenti a tali immagini sono stati rinvenuti in rete due interessanti articoli, in cui si tratteggiano le caratteristiche storico-artistiche, ma soprattutto iconografiche, di questi affreschi.
Si rinvengono molte corrispondenze con l’arazzo della stanza di Lei. Ad esempio:
- “Su una parete c'è una ninfa inseguita da due cacciatori: le sue vesti, come colore e foggia, sono le stesse di quelle di Atteone che si sta tramutando in cervo; non solo, le braccia e le mani di Atteone hanno una apparenza femminile”;
- “La scena di Atteone-cervo sbranato dai suoi cani è priva di violenza e di movimento: è una tragedia immobile, e certamente ciò non dipende da incapacità rappresentativa del Parmigianino [...] E' una chiara scelta, rappresentare Atteone-cervo ed i suoi cani in quel modo”.
Ugualmente in precedenza una partecipante con riferimento allo stupendo “Sogno di Lei” da parte del fuggiasco nel dodicesimo capitolo del Romanzo, ha ritenuto che in questo capitolo siano percorsi i luoghi classici del sabba: la radura, il noce, l'unzione, il fuoco, i grani di sale, la saggina... anche l'apparizione di Lei su un cipresso sembrano abbiano un riferimento molto preciso rispetto ad alcune apparizioni di streghe o figure femminile inquietanti già nell'antichità post-classica. In particolare sul noce delle streghe si possono trovare parecchi riferimenti al noce di Benevento.
Ha tratto per caso ispirazione nell’elemento pittorico del celebre arazzo della stanza di Lei descritto nel Capitolo XVII ispirazione dagli affreschi menzionati o da altre opere dell’arte figurativa italiana e nel seducente e nel contempo inquietante e episodio del sogno di Lei nei riferimenti dell’antichità post-classica e peculiarmente nel “noce di Benevento”?
È sempre sorprendente per un autore constatare come le più varie influenze che sottendono il testo o lo connotano in modo più o meno segreto possano spingere il lettore ad indagarne i nessi e le relazioni per successive interpretazioni.
La rocca di Fontanellato è luogo di grande suggestione. Ma soprattutto il ciclo del Parmigianino, che sospende il dramma riproducendolo in una sintesi mitica e magica. È la suggestione esercitata da quelle immagini, insomma, ad aver aggredito il cuore della stanza di lei. Non potevano esserci mediazioni, in tal senso; non potevo che obbedire alla richiesta di un mondo interno al racconto. Voglio dire che la libertà di intervento di un autore è ben più limitata di quanto si immagini. Spesso si crede di poter dominare una materia di cui, invece, si è vittime inconsapevoli. Ma la coscienza di essere al servizio di un mondo che risponde già a sue leggi interne è un passo che bisogna affrontare con lucidità se non si vuole rischiare di intervenire sul testo modificandone in modo artificiale i rapporti più intimi.
Lo stesso dicasi per il riferimento al noce di Benevento con il quale mi sono imbattuto casualmente (dal mio punto di vista), guidato da un nesso di “parola”, dove l’elemento simbolico e fonetico ha prevalso in parte su quello contenutistico. Il rapporto tra il “malo vento” della tormenta di neve e il “bene vento” del noce nella tradizione esoterica ne discendono di conseguenza.
5) Con riguardo alla materia di ispirazione del Romanzo, questa più volte si arricchisce con elementi particolarmente suggestivi legati alla cultura figurativa occidentale.
In particolare la mente ritorna all’incantevole e, nel contempo, inquietante arazzo, richiamato in precedenza, del capitolo XVII nella stanza della sorella della guida.
Su tale elemento pittorico descritto nel testo, peraltro, è stata operato un bel parallelo, rinvenendo in tale passo una lettura del tutto originale del mito di Diana e Atteone.
Il lungo e straziante testo dalle Metamorfosi di Ovidio viene reso, in Racconto d’inverno, in modo “sintetico e potente” nel citato Capitolo XVII.
Ma il pensiero va anche alla splendida “galleria” di immagini dei capitoli 28° e 29°, ove abbiamo modo di rimirare nel libro d'arte illustrato sul Rinascimento, in base peraltro alle descrizioni parziali, secondo l'ottica limitata dello sbandato, capolavori della levatura del “Cristo morto” del Mantegna, o de “La tempesta del Giorgione” ecc.
È stato sottolineato come tali elementi ricorrenti operino una riaffermazione della cultura artistica più splendida e, al tempo, ricca di ambiguità e sfaccettature, della nostra storia, con rimandi alla cultura italiana, e dunque ad un'identità culturale precisa.
Ritiene vero che Racconto d’inverno, sotto tale aspetto, non oltrepassi davvero il confine, rimanendo tutto dentro la più magnificente espressione del nostro gusto nazionale, assumendo, oltre che per tutto il resto, l’aspetto di un libro davvero unico, italianissimo, di cui c’era proprio bisogno?
Sì, credo che questo elemento di italianità sia presente in Racconto d’inverno anche se non come sentimento di orgoglio nazionale. La ricapitolazione di una tradizione illustre è nelle intenzioni culturali del libro, infatti; il bisogno di tornare ad un’origine prima dell’errore che può essere interpretato come uno dei fulcri interni al romanzo. Ciò che voglio dire è che, sotteso al testo, si organizza un tema, quello della sconfitta storica e culturale oltre che esistenziale. Avevo bisogno di riconnettere il presente ad una tradizione interrotta, quella letteraria e artistica che più di ogni altra mi sembrava in grado di recuperare un rapporto con l’essenzialità del concetto di cultura. Facendo piazza pulita degli elementi retorici e di sistema culturale visti come sovrastrutturali. E per compiere fino in fondo questo percorso non potevo che fare i conti con il mito. È nel rapporto tra mito e arte, infatti, che si genera il particolare clima instauratosi in Racconto d’inverno.
6) Durante il corso del gruppo di lettura, nell’analisi dei vari capitoli sono emersi molteplici riferimenti a influssi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Così ad esempio l'elemento dell'acqua (fonte di salvezza ma anche di perdizione), il “torrente” con la sua simbologia, gli elementi dell'eros e dell'agape, del Cristo e della sua croce (il Cristo vestito nel “giardino” della Casa e i due impiccati), dei dipinti di Leonardo già richiamati, della "scala verso il cielo" di Giacobbe e della "cecità" di Tobia dell’omonimo Libro, del ragazzo dai capelli rossi con la sua catasta di legna figura di "Isacco", e importante dello sbandato come "fuggiasco" come figura di Caino.
Sappiamo peraltro da una recente intervista (Leonardo Bonetti, letteratura e musica di Marilù Oliva), apparsa su “Trhiller Magazine” del Suo impegno, insieme ad altri undici scrittori, per un progetto di grande livello e interesse, una traduzione dell'Antico Testamento.
C'è spazio per una lettura spirituale o "cristologica", biblica all'interno di Racconto d’inverno? E ancora, dietro al Suo romanzo si nasconde una conversione o piuttosto una consolidata frequentazione dei temi della fede cristiana ?
Il tema della conversione e della ricerca intesa come ansia di religiosità è, secondo me, ben presente in questo libro. Anche se il termine “conversione” deve essere inteso nel senso più largo, come una sorta di scoperta del mistero della vita, e di rifiuto delle forme nichilistiche della postmodernità. C’è, oggi, una perdita irrimediabile che è divenuta alibi per atteggiamenti di cinismo o, persino, di autolesionismo. E in questo senso il richiamo all’opera cinematografica e poetica di Andreij Tarkovskij e del padre Arsenij (nelle fonti dichiarate di Racconto d’inverno è infatti rimasto implicito l’accenno alla poesia mistica di Arsenij Tarkovskij) è essenziale. La mia conversione è, insomma, prettamente “artistica”, nel senso che avviene attraverso l’arte. È l’arte (o forse, ancora meglio, la poesia), per me, l’essenza di ogni religiosità. Solo attraverso l’arte, infatti, si esplica pienamente e profondamente (in senso, cioè, esclusivamente umano) l’esperienza del religioso. Potrei dire che, da uomo postmoderno, “vivo la natura” attraverso l’espressione. E che, in questo processo di scoperta, il sentimento dello stupore e dello smarrimento vanno di pari passo.
L’elemento biblico è già implicito nella mia ricerca su A libro chiuso come libro dei libri. Ma non solo. Si fa accenno giustamente alla traduzione dell’Antico Testamento, progetto al quale sto lavorando ormai da un anno. In questo senso ciò che mantiene un rapporto di stupore e, insieme, di fascinazione è contrassegnato da due direttrici ben specifiche: da un lato la costruzione dell’immaginario come sistema complesso di simboli, dall’altro l’elemento linguistico più propriamente detto, soprattutto nei suoi aspetti sintattici e, quindi, di direzione della parola. Intendo dire che è proprio in questa direzione, fondamentalmente di allineamento e consecuzione, che riscopro l’essenzialità di un dettato fonte di ulteriore riflessione sul rapporto che intercorre tra rappresentazione ed espressione.
7) Con riferimento ad uno, tra i diversi riscontrabili, degli snodi centrali emersi dall’analisi del romanzo, vale a dire “la tematica dell’altro”, in particolare la “frattura in noi che chiede di essere sanata”, poiché l'esistenza dell'uomo si risolve nella fiducia di un'unione tra ciò che è separato, sono stati sottolineati, in relazione ai commenti sul XXXVIII Capitolo di Racconto d’inverno, due approcci diversi.
Da una parte è stato evidenziato come i due fratelli siano la rappresentazione di due nostri possibili atteggiamenti nei confronti della vita: stare fuori o stare dentro, due pulsioni (la guida “il fuori”, la sorella “il dentro), ancestrali, intimamente compenetrate in noi.
La guida “sta fuori”, frequenta la natura, la sente, invita a cercare la fede fuori di sé, nel deserto, sulla montagna. La sorella “sta dentro”, vive nascosta, sprofondata nei sotterranei, invita alla riflessione intima e ad affrontare il terrore del mostro che ci dilania.
Dall’altra parte è stato rimarcato l’aspetto del “rapporto con l’altro femminile/maschile”, con riferimento alla sorella della guida e al bambino canuto nei confronti del fuggiasco.
Lo sbandato appare, alla fine, innamorato realmente di entrambi. Lui e Lei sono parti di un'unica essenza. Rappresentano "l'altro"nei suoi aspetti maschili e femminili.
"Lui e lei senza possibilità di continuità che fosse altro dal mio essere innamorato".
È dunque lo sbandato a riunire quegli aspetti con il suo innamoramento. Attraverso l'innamoramento lo sbandato assume pertanto su di sé l'aspetto femminile e maschile con una continuità e perfezione altrimenti impossibile.
Peraltro sotto tale secondo profilo è recentemente apparso un articolo sull’inserto “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” di domenica 14 marzo 2010 (n. 72 p. 34), dal titolo Sesso? L’indifferenza fa male, con il sottotitolo Dal cyborg di donna Haraway alla non distinzione di Judith Butler, il concetto di «altro» è alla base del rapporto uomo – donna.
In realtà si tratta di un brano (pubblicato - su concessione della rivista “Études”, con la traduzione di Anna Maria Brogi) tratto da un articolo di Michela Marzano, docente di Filosofia morale all’Università di Parigi V, contenuto nel bimestrale dell’Università cattolica “Vita e Pensiero” (n. 1, gennaio/febbraio 2010).
Premesso che ritengo i due profili, le due istanze che segnano, con riferimento al personaggio della guida e della sorella, due possibili sviluppi evolutivi della personalità dello sbandato, “complementari” (femminile-maschile o interno-esterno) l’una con l’altra, rispetto alla tematica dell’altro, elemento che mi sembra centrale nell’economia della nostra opera, Lei che pensa di tali temi nell’ambito di Racconto d’inverno? Si riconosce in tali analisi ?
Mi sembra interessante sottolineare come, in Racconto d’inverno, la tensione a volte estrema cui giunge la vicenda e il clima interiore del testo, vada nella direzione di un ricongiungimento, se così posso dire. La vicenda, insomma, denuncia sin dall’inizio una separatezza che è nelle cose e nel mondo, inteso sia come dimensione ontologica che storica. In questo le dinamiche di esterno-interno o femminile-maschile, pur rappresentando un fattore sotteso alle forme di organizzazione e divisione del reale da un punto di vista psicologico e archetipico, possono apparire riduttive. È indubbio che i personaggi possano rappresentare, di volta in volta, l’uno o l’altro aspetto, ma non potrei offrire elementi per sostenere una tesi piuttosto che l’altra: il rapporto con il testo è talmente misterioso che esula dalla competenza dell’autore.
La direzione fondamentale del libro, comunque, mi sembra procedere verso un’unione impossibile. Non è un caso che il finale proponga una riunificazione attraverso un salto di dimensione. Si tratta di un procedimento immaginativo ma anche, nel contempo, ancestrale. C’è qualcosa, intendo, che sta alla base di ogni discorso umano, e che ci richiama indietro verso questa riunificazione del reale, rifiutando ogni classificazione di comodo.
In questo contesto il discorso su l’altro è davvero centrale. Racconto d’inverno è un cammino doloroso alla scoperta dell’altro. Lo sbandato tenta in tutti i modi di conoscersi e di conoscere l’altro che è in sé. I suoi tentativi sono votati al fallimento nonostante manifesti più volte tutte le qualità umane per poter riconoscere l’errore. Eppure l’errore sembra riprodursi per una sorta di coazione involontaria, quasi come un meccanismo fatale e anteriore. E il libro non fa che ripetere sempre lo stesso concetto: l’altro è conficcato in noi ed è solo a partire da una solitudine piena che possiamo amare.
8) A partire dalla tematica dell’altro, nel suo approccio maschile/femminile, è stato osservato, con riferimento al fuggiasco che questa ricomposizione non è facile. Non si può tentare di ricomporre la diversità profonda del maschile e del femminile in modo perpetuo e continuato. Questa ricomposizione è sempre drammatica, insomma. Perché mantiene una separatezza:
“Eppure lui escludeva lei come lei escludeva lui. Il mio amore non poteva vivere che in questa frattura”.
E infatti la storia raccontata da lui è opposta alla storia raccontata da Lei. Ognuno dei due nega l'esistenza dell'altro. Entrambi vivono solo grazie allo sbandato.
“Sarei dovuto riuscire ad accettare ciò che diceva lui e ciò che diceva lei senza chiedere spiegazioni, per un puro atto di fede”.
Ecco quella che sembra dunque la chiave di volta: “la fede”. Una fiducia di cui tutto il testo è permeato. Anzi una richiesta di fiducia che è al centro della creazione, dell'opera, della vita. Un'ansia di religiosità profonda.
“E non si trattava solo delle loro storie, ma di ciò che rappresentava lui e di ciò che rappresentava lei. Erano due realtà di cui lui e lei erano custodi. Io li tenevo uniti dentro di me con l'unico risultato di sentirmi spaccato in due, interamente irrisolto”.
In questo passo c'è il fulcro profondo intorno al quale ruota tutta questa fase finale. Uno degli aspetti più importanti del romanzo. La tesi, insomma, che l'esistenza dell'uomo si risolva nella fiducia di un'unione tra ciò che è separato. Che la scommessa di ogni esistenza sia proprio questa. E che la difficoltà, l'impossibilità stessa di questa operazione, sia legata alla finitezza e alla limitatezza della nostra natura:
“questo era troppo per me. Io non ero in grado di superare quella prova”.
Eppure, nonostante ciò, sembra dirci questo romanzo, bisogna tentare l'impresa. Sebbene sia destinata ad un fallimento apparente.
Parimenti, prendendo le mosse dal secondo aspetto formulato, quello dei due possibili atteggiamenti nei confronti della vita, lo stare fuori o lo stare dentro, è stato osservato come lo sbandato finalmente si renda conto di non essere riuscito a comporre il divario tra queste sue due pulsioni, che la sua vita si stava perdendo nella definitiva palude del “non prendere parte”, che in fondo non aveva fatto nulla per ottenere la fede così intimamente desiderata e così esteriormente avversata.
Ma forse è proprio questa consapevolezza che lo salva. Il cordone ombelicale è tagliato. Egli rinasce ad una nuova vita e può
"tornare al mondo [...] accettandone la violenza immotivata ma necessaria, [...] aperto ad un bisogno insostenibile [...] di camminare e di immerger[si] in tutto ciò che esisteva".
“Il cammino era il mio nome, il deserto bianco il mio luogo”.
Ecco allora un altro –a mio avviso- degli elementi più importanti del nostro “Racconto”, “la chiave di volta” : la “fede”. E più volte è stata evidenziata lungo il nostro cammino di lettura la “forte religiosità” che connota tutto il testo del romanzo.
Qual è il suo pensiero su tali tematiche nell’ambito della Sua opera ?
A questa domanda ho in parte risposto precedentemente. Ma l’accenno alla fede, effettivamente, mi sembra troppo importante per non approfondirlo. Forse si tratta dell’effetto stesso della mia conversione tarkovskiana. Tarkovskij infatti ha reintrodotto nel mio vocabolario di postmoderno con la nostalgia del moderno, secondo una definizione a cui sono particolarmente legato, proprio quest’elemento di opposizione alla contemporaneità: la fiducia o, altrimenti detta, la fede. Senza questo elemento non c’è spazio per la vita. C’è un passo, in Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij, in cui il grande pittore russo si rivolge al suo maestro apparsogli in sogno dopo la sua morte. Alle querele del vecchio rivolte contro la corruzione del mondo e la vanità della vita intesa come perdizione e peccato, Andrej gli risponde con uno stupore amaro: «Come fai a dipingere se hai queste idee io non lo capisco, e ad accettare le lodi che ti fanno».
Ecco, la fiducia e la fede si oppongono in modo radicale alla interpretazione più lucida del reale. Persino di fronte ad attestazioni dettagliate e fondate sulla crisi e il male del mondo così come siamo venuti conoscendolo nel corso della storia, il nichilismo postmoderno è davvero sintomo di una limitatezza che dobbiamo combattere con tutte le nostre forze. La vita, infatti, è fiducia nell’essere, fiducia disperata, vorrei aggiungere. Non si tratta di una scappatoia per una consolazione gratuita. Bisogna accogliere con fiducia il nostro sforzo credendo nel cammino. La scrittura è questo. Non serve a nulla, è del tutto inutile, eppure è necessaria e si muove con noi. L’arte del cammino è il centro stesso della nostra esistenza. E il cammino si fa da soli scoprendo ad ogni passo l’altro. È l’altro del paesaggio, l’altro del tempo che scorre in noi invecchiandoci, permettendoci di scoprire la necessità della vita insieme alla possibilità della morte. E non deve esserci contropartita: la religiosità non è baratto tra obbedienza e immortalità. La fiducia non chiede nulla in cambio. E non si tratta nemmeno di una fede nella divinità rivelata, bensì di una disposizione ad abbracciare la vita come un mistero di cui facciamo parte.
La ricomposizione del dramma, lo ripeto, non è nelle nostre possibilità. Noi viviamo dentro il dramma e la vita stessa si esplica in modi, appunto, drammatici. La separazione è parto, espulsione dell’essere da un tutto verso una divisione. E il richiamo di tutta una vita è proprio verso questo ritorno ad una unità impossibile, scomoda.
9) In apertura, nell’esergo del libro è esplicitato il riferimento a Landolfi e Tarkovskij. E infatti tra i suggerimenti “extratestuali” forniti in apertura del gruppo di lettura figuravano, per l’appunto, i due elementi appena menzionati.
Come mai ha sentito l'esigenza di riprendere e rivisitare il romanzo di Tommaso Landolfi Racconto d'autunno? E quale aspetto artistico l'ha spinta a riprendere nel contempo, come si legge fin dalla quarta di copertina, anche alcune suggestioni del film Stalker di Andrej Tarkovskij?
Che rapporto c’è tra la sua scrittura e questi artisti tanto diversi e appartenenti l’uno alla letteratura, l’altro all’arte cinematografica?
Anche a questa domanda credo di aver già in parte risposto. D’altronde risulta davvero difficile separare ciò che è indissolubile. Ma c’è forse ancora qualcosa da dire su questo punto specifico. Innanzi tutto sulla suggestione che mi ha guidato nella scrittura. E si tratta di suggestione, appunto, letteraria quant’altri mai. Da questo punto di vista è bene esplicitare le categorie più invalse del postmoderno. La scrittura come citazionismo e mediazione linguistica è cara ad ogni definizione estetica del postmoderno. Ma non si tratta solo di questo. Come ho avuto modo di affermare, infatti, non è in discussione l’appartenenza ad un mondo che, mentre storicamente si potrebbe definire “globalizzato”, post-ideologico e privo di prospettive politico-culturali complessive, sul versante estetico si indirizza verso forme che, per comodità, potremmo riassumere come “post-moderne”. La fase di trasformazione avvenuta subito dopo la fine della seconda guerra mondiale ha avuto un suo acme e forse il punto di rottura negli anni ottanta, segnando l’inizio di una fase globalizzata dell’economia e, soprattutto, della cultura. È quest’ultima fase, insomma, che ci vede piombati in una dimensione più dichiaratamente postmoderna. Anche se le premesse erano già tutte in atto nel periodo che va tra la seconda metà degli anni cinquanta e gli inizi degli anni sessanta. Ebbene non è forse un caso che sia stato proprio Racconto d’autunno, forse uno degli ultimi romanzi di Landolfi prima del periodo dei grandi diari, datato intorno al ’47, ad aver attratto la mia attenzione. Si tratta infatti di un testo del tutto particolare, in cui l’ironia tipica del grande scrittore di Pico è appena accennata o, comunque, trattenuta sotto la coltre neoromantica del gioco narrativo. E si tratta, al tempo, di un testo-archetipo, di uno di quei libri-libri, insomma, dal quale parte un grado zero. È proprio questo sentimento di origine che ho sempre avvertito di fronte alle sue pagine, tanto da renderlo centrale nella mia formazione letteraria. Ed è per la necessità di affrontare il mio tempo che ho avuto l’esigenza di rintracciare un polo cui rivolgermi come punto di origine della scrittura. Racconto d’autunno è divenuto quindi il mio libro dei libri, tutto nazionale e, forse proprio per questo, più eminentemente universale, il punto di partenza, insomma, dal quale ridisegnare un percorso che la letteratura ha rifiutato dopo Landolfi. Landolfi autore-fulcro che, rinnegato negli sviluppi della letteratura italiana seguente proprio mentre veniva in parte incensato per cause, a mio avviso, sostanzialmente marginali (in primo luogo legate ad un supposto preziosismo linguistico inteso come artificio del gioco letterario), rappresentava un ritorno all’origine, al punto, cioè, dove rintracciavo la sconfitta di un’opzione davvero essenziale di letteratura. Da allora, infatti, prima con l’equivoco neorealista indotto e giustificato dall’eccezionale contingenza storica, poi con quello neosperimentale e infine con la fase dell’integralismo postmoderno databile all’inizio degli anni ottanta, la letteratura ha iniziato a giocare fuori casa. Ha perso la sua autonomia. Cedendo al mercato in modo rovinoso fino agli esiti attuali.
Tarkovskij, d’altro canto, incarnava per me due direttrici altrettanto fondamentali: da un lato la possibilità di opposizione dentro la contemporaneità assumendo il postmoderno contro il postmoderno; dall’altro una più forte presa di coscienza della vocazione religiosa dell’arte come esperienza più che come indagine. Strumento fondamentale: l’arte come poesia del visibile.
10) Nel gruppo di lettura e in qualche commento su Racconto d'autunno è stato evidenziato anche un accostamento all’inquietante, multiforme e visionario libro postumo di Giorgio Manganelli La palude definitiva: è corretto questo riferimento? In caso affermativo ce ne può parlare ?
Non conosco in modo approfondito il testo di Manganelli ma credo di capire i motivi che hanno spinto a tale accostamento. D’altronde il tema stessa del libro, l’assenza di ogni riferimento storico o geografico, lo rendono particolarmente vicino all’impostazione o struttura narrativa di Racconto d’inverno. C’è poi un elemento linguistico tipico di Manganelli che potrei definire “espressionistico”, da nipotino di Gadda, che nella mia scrittura è presente sul versante delle immagini più che della lingua. Da un punto di vista tematico, inoltre, nei testi di Manganelli emerge un rapporto ossessivo con la morte e una tendenza alla nullificazione del reale. Trovo in questa tensione espressiva una sostanziale vicinanza, sebbene il rapporto instaurato da Manganelli rimanga di tipo più prettamente nichilista. C’è una disperazione assoluta nella concezione di “letteratura come menzogna” che non posso ricevere fino in fondo; la mia fiducia nell’arte risiede in un’approssimazione alla verità. Rimango convinto che scrivere sia un cammino nel deserto ma dentro un’esperienza reale. Il dramma, in questo, non si estingue, ma semmai si rinnova in forme sempre più profonde e sincere.
11) C’è un elemento di profondità nella sua scrittura che risulta difficilmente codificabile e che rimanda ad una tradizione illustre della grande letteratura. Qual è il suo rapporto con il panorama letterario contemporaneo? Si sente parte di un movimento o scuola oppure persegue una sua ricerca personale ?
La mia non può che essere una ricerca personale, come ogni scrittura che si fonda su uno stile. Ciò nonostante la scrittura è parte di un processo più generale che comprende ogni aspetto della realtà culturale. Non si possono eludere le forme di influenza e di condizionamento provenienti dal mondo in cui viviamo.
Ma più in generale potrei sostenere di essere dentro una scuola e contro di essa. E mi riferisco alla fenomenologia del postmoderno che sono andato più sopra delineando in modo sommario. La profondità riscontrata da più parti nella mia scrittura, insomma, fa riferimento ad una tradizione che non si interrompe nonostante le negazioni che da più parti sono giunte dagli albori della postmodernità (o meglio dagli epigoni della modernità). Basta riandare alle parole di Agamben che alla fine degli anni settanta decretava l’assenza dell’”esperienza” dall’orizzonte dell’uomo contemporaneo; o all’ultimo tragico Pasolini che osserva la scomparsa dell’innocenza nelle borgate romane, nel mondo marginale del sottoproletariato così disperatamente amato. Tutto ciò il postmoderno ha tradotto in un nichilismo privo di ogni sentimento del dramma, impostosi come un dato di fatto ineluttabile esattamente come il sistema di relazioni culturali, sociali ed economiche che ci troviamo a vivere. L’ineluttabilità di questo sistema complessivo si basa sulla sua non pensabilità, manca infatti l’elemento naturale tanto caro alla Ortese. Ed è nella linea tracciata dalla grande scrittrice de L’iguana, infatti, che è possibile rintracciare una possibilità interna di risposta e resistenza nei confronti della rottura degli argini del postmoderno. Non è un caso che Pasolini avesse profetizzato la scomparsa dell’essere umano tout court, lasciando il campo ad un mondo fatto solo di “strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”.
Ecco, posso dire che, superando le profezie apocalittiche degli epigoni del moderno, e al tempo stesso l’ineluttabile acriticità del postmoderno, occorre oggi riaffermare, pur dentro la pervasività della civiltà dei consumi e dello spettacolo, la qualità insopprimibile dell’“esperienza”; quest’ultima infatti continua a sopravvivere in forme magari clandestine e marginali, ma rimane un nucleo duro, vivo e resistente. Questo, credo, sia in parte il cuore pulsante di Racconto d’inverno.
12) Ritornando al riferimento al cinema, in generale, sono emersi nella lettura del Romanzo altri accostamenti cinematografici: oltre alle varie opere menzionate di Tarkovskj, in particolare Stalker, a Il posto delle fragole diretto da Ingmar Bergman (per la scena degli “orologi senza lancette”), è stato, ad esempio, prospettato un parallelo della “Stanza di Lei” alla famosa stanza che appare alla fine del film 2001: Odissea nello spazio del regista Stanley Kubrick (tratto dal contemporaneo e omonimo romanzo di fantascienza del 1968 dello scrittore britannico Arthur C. Clarke).
E stato sottolineato infatti più volte nel corso del gruppo di lettura il fatto che molte delle immaginifiche descrizioni di Racconto d'inverno hanno un forte taglio cinematografico.
E' Suo intendimento intraprendere o ha preso già dei contatti per una produzione con riguardo ad una trasposizione cinematografica di Racconto d'inverno, magari per il piccolo schermo, come era capitato nel lontano '81 per Racconto d'autunno di Tommaso Landolfi ?
La cultura cinematografica sottesa a Racconto d'inverno è conclamata sin dalla quarta di copertina, dove si fa riferimento ad uno dei capolavori del cinema tarkovskiano. Ma i riferimenti di cui sopra credo possano essere facilmente provati con uno scavo dentro al testo. Non bisogna avere troppa fiducia nell’analisi testuale, ci tengo a ribadirlo un po’ controcorrente. D’altronde mentre è evidente il riferimento al cinema di Bergman con gli esempi dell’orologio de Il posto delle fragole o potrebbe esserlo altrettanto con la stanza di 2001: Odissea nello spazio (sebbene possa essere avvertita come secondaria) ci sarebbe spazio per altri e più cospicui agganci con la filmografia di Bresson, tra gli altri, e quella di Antonioni che, però, rimangono muti ad un livello di analisi troppo testuale. Eppure non sarebbero meno importanti per ricostruire il gruppo di fonti che stanno a monte della mia scrittura. Certo si tratta di esperienze artistiche e filmiche utili a delineare la linea di tendenza della ricerca in atto in Racconto d'inverno. Tutta nel senso di una riscoperta dell’elemento problematico dell’esistenza e della necessità di affrontarlo con una fiducia nell’atto creativo, con la volontà di comprendere dal profondo l’esperienza dell’arte come della vita. Abolendo però le più facili coordinate del cinismo razionalista oggi imperante.
Per ciò che concerne una possibile trasposizione cinematografica di Racconto d'inverno, a tutt’oggi non ho progetti di questo tipo. Il quid letterario del testo è così connotato da scoraggiare operazioni di trasposizione. Si tratta di adeguare forme di linguaggio complesse ad altre più sintetiche e potenti. Il procedimento è tra i più rischiosi e i meno sicuri e non sarebbe facile operare sintesi di questo tipo. Non posso comunque escludere sviluppi futuri in tal senso.
13) Come è nata l'ispirazione per la scrittura di Racconto d'inverno? Quali sono le sue ascendenze letterarie a parte l'ovvio legame con l'opera di Tommaso Landolfi ?
Racconto d'inverno, come ho già detto, deve moltissimo al Racconto d’autunno landolfiano. Ed è la storia di un doppio fallimento. Infatti all’inizio la mia intenzione era di musicare il romanzo di Landolfi. E solo dopo ripetuti tentativi andati a vuoto ho capito che avrei dovuto riscrivere io il romanzo a partire dall’incipit landolfiano. Poi lo sviluppo di questo fiume carsico ha preso il sopravvento e i personaggi e i loro destini hanno seguito strade inimmaginate coinvolgendo la mia non solo da un punto di vista psicologico ma, direi, anche biologico. Ho dovuto sopportare il peso della scrittura in ogni sua sfaccettatura, persino nelle veglie notturne, momenti in cui i personaggi hanno portato il loro assedio in modo più massiccio.
14) La sua scrittura è molto densa e avvertita. Quali sono i motivi che la spingono ad una ricerca stilistica di tale tipo?
Inoltre sempre sotto il profilo stilistico, la Sua scrittura rivela una qualità molto particolare, denotando una capacità di impressionare profondamente, nel percorso di un’esperienza unica lungo duecento pagine profondissime, intense, abbaglianti, pervase di poesia e sincerità. È stato più volte evidenziato nella discussione su Racconto d'inverno che dopo la lettura del testo si sente già il bisogno di rileggerlo. Come è stato detto “si tratta di qualcosa di così tenero e necessario che non si può fare a meno di tornare a leggere le pagine, di riprendere la lettura riassaporando i passi più intensi.” Che ne pensa di questo elemento riscontrabile non solo nel Suo esordio letterario ma anche nel Suo nuovo racconto inedito Libero ?
C’è da fare un discorso sullo stile come movimento e cristallizzazione. Con un’immagine potrei dire che lo stile è uno scorrere che si solidifica, un fiume di lava dopo un’eruzione scomposta. Gli interventi a freddo sono rischiosi e oltremodo penosi. Aggiustamenti vanno eseguiti nel breve periodo, ma sarebbe illusorio pensare che possano bastare. Tutto questo perché c’è un’urgenza di aggredire il reale da un altro punto di vista, da un’altra angolatura. E questo si sviluppa spesso in un’ottica di adeguamento alle leggi di moto nella prospettiva dello sguardo. In questa mobilità a focalizzazione interna si gioca un continuo tentativo di assestamento attraverso il tratto stilistico. Anche se la guida che ricongiunge, principio ispiratore di ogni scelta stilistica, resta sempre la musicalità liquida che sovrintende alle scelte di lingua e di direzione della parola.
15) Racconto d'inverno si svolge in montagna e vicino al confine. Quali relazioni "reali" si nascondono dietro questi riferimenti simbolici? Si tratta forse di un racconto che si può ascrivere al periodo della seconda guerra mondiale?
E quali sono i significati simbolici di una scelta paesaggistica o geografica così particolare ?
È indubbio che, prendendo le mosse dal testo di Landolfi, Racconto d'inverno possa essere ascritto al periodo della guerra in Italia tra il ’43 e il ’45. È risaputo, infatti, che Racconto d’autunno narra di una fase realmente vissuta dall’autore, nel periodo in cui gli angloamericani risalirono la penisola fino a Cassino e oltre. Il testo di Landolfi fa un esplicito riferimento a quel momento storico, in cui il nostro paese fu occupato da due eserciti stranieri in lotta. Racconto d'inverno, d’altra parte, pur facendo propri alcuni riferimenti, non può essere ricondotto del tutto a quel frangente storico. Un po’ perché non si tratta, come invece per Landolfi, di una esperienza vissuta direttamente, un po’ perché la natura di citazione e di fonte da cui nasce il romanzo è evidentemente strutturale. Il testo, inoltre, lascia volutamente indefinito il dato storico mantenendo come coordinate aspetti più generali: per il tempo, come già detto, la stagione invernale; per lo spazio il confine vicino alla montagna. Infine c’è da aggiungere che, all’interno della storia nazionale, la guerra tra le montagne, nei luoghi descritti dal romanzo, può essere ricondotta persino al primo conflitto mondiale, anche se con modalità e sviluppi ben diversi. Aspetti reali ci sono, insomma, ma non possono essere ricondotti ad una realtà contingente e specifica. Ci sono le guerre del nostro paese, si descrivono secondo una modalità di memoria profonda, di tradizione, evitando ogni caratterizzazione riduttiva. La guerra, quindi, in Racconto d'inverno è una dimensione che sta sullo sfondo, che fa da tessuto connettivo su cui si installano e si giustificano i personaggi e la situazione.
D’altra parte lo svolgersi dell’azione in montagna e in inverno porta in primo piano un aspetto simbolico fondamentale oltre all’amore profondo nutrito per quei luoghi; la montagna rappresenta per me, infatti, una vera e propria dimensione dell’essere, estrema, senza dubbio, ma proprio per questo essenziale e profonda.
16) È molto suggestiva la parte in cui lo sbandato penetra in una fenditura della montagna e accede ad una vallata dolce, dove alcuni personaggi grotteschi, organizzati in una piccola banda, conducono un gioco ambiguo e crudele con il bambino-guida. L’elemento del grottesco, in relazione a tale tematica, appare presente peraltro anche nella “visione” del secondo capitolo del libro - che precede la stanza di Lei - ove c’è l’inquietante “apparizione” del “Mago” e della “fanciulla”: in quell’occasione infatti troviamo questi soldati che avevano “i fucili in spalla come zappe di contadini che andavano alla guerra”. In questa rappresentazione volutamente grottesca può dedursi un riferimento più generale alla guerra, all’assurdità dello scontro armato?
La guerra infatti in Racconto d'inverno rimane sullo sfondo della narrazione, ma a tratti fa capolino in modo potentemente espressivo. Quale è il senso profondo di questo tema all'interno del libro e a quale attualità secondo Lei rimanda nel panorama del mondo contemporaneo ?
Credo che la guerra sia già realtà dell’oggi. Come in ogni periodo storico. Nel nostro caso rimane sullo sfondo per poi esplodere all’improvviso presentandosi alla nostra esperienza e chiedendo una sintesi cui non siamo in grado di dare piena soddisfazione. Non ce ne rendiamo pienamente conto, ma il conflitto è dichiarato in più forme. Finita la guerra fredda è iniziato uno scontro meno consapevole tra nord e sud del mondo di cui ci sentiamo semplici spettatori; e non è detto che, alla fine, ne saremo i vincitori. Di questi anni, di questi mesi e addirittura di questi giorni, sono i tanti segnali di uno sconvolgimento di cui iniziamo a pagare le prime conseguenze. Probabilmente nel prossimo futuro potremmo veder aggrediti diritti e sicurezze considerati ormai acquisiti e, invece, mai come in questo momento così a rischio.
Nella guerra, in questa o come in quella di Racconto d'inverno, l’autodistruzione non ha che una forma: l’autoesaltazione retorica. O ci si crede o la si espone al ridicolo. Ma in questo caso rimane davvero poco spazio per una risata liberatoria, per questo le figure si deformano in grottesco. D’altronde la mia predilezione per l’espressionismo novecentesco è così forte che non avrei potuto far diversamente. Penso a Grosz o a Schiele, tra gli altri. O a Kirchner, ma anche al cinema di Murnau. Di fronte ad epoche di crisi così profonde l’espressionismo porge una via di fuga disperata ma non nichilistica.
17) Allegoricamente Racconto d'inverno lo definirebbe come una metafora della vita, dell'amore o della morte ?
È davvero difficile rispondere a questa domanda escludendo qualcosa. Se Racconto d'inverno fosse riuscito nell’intento di esprimere un’esperienza di vita, di morte e di amore avrebbe raggiunto una sua integrità di tutto rispetto. Posso solo dire che, scrivendolo, non mi sono mai posto il problema e che ora, a distanza ormai di tre anni dalla sua prima stesura, ne ho ancora una vaga consapevolezza.
Ma la domanda, nello stesso tempo, apre uno spazio che mi permette di dare una definizione forte, di certo riduttiva come ogni definizione - ma fulminea e verticale: Racconto d'inverno è un’allegoria postmoderna. Si tratta evidentemente solo di una formula, ma capace di stabilire un legame con un filone interno alla letteratura della seconda metà del novecento; mi riferisco alla Ortese de L’iguana, opera per me centrale nel riconnettere esperienze primo novecentesche con possibili sviluppi del nuovo millennio.
18) Ci sono momenti di visionarietà fantastica in Racconto d'inverno che prorompono in modo potente ed espressivo. Vengono in mente, tra gli svariati elementi, quello delle altre le “altre porte” della stanza della guida e di Lei. Qual è in particolare il significato di queste “altre porte”?
E, più in generale, qual è il rapporto tra realtà e fantastico all’interno della sua poetica ?
L’“altra porta” è la possibilità che ancora abbiamo di esperire la realtà. Se riduciamo l’esperienza all’ottica del visibile produciamo un cortocircuito tra realtà dell’oggetto e la sua verità. E noi non dobbiamo mai rinunciare a ricongiungere il reale con la propria autenticità. Per operare tale congiunzione è necessario praticare un contatto senza scorciatoie con la realtà dentro di noi. Se ci rapportiamo alla realtà come uno spettacolo visibile del quale essere semplici spettatori, noi operiamo una cesura in due direzioni: innanzi tutto verso l’oggetto, in secondo luogo dentro il soggetto. Un bicchiere esiste come oggetto separato fin quando non ce ne facciamo carico “dentro di noi”. Per far questo il bicchiere deve poter diventare un bicchiere che ci viene incontro nello spazio e nel tempo. Dobbiamo poterlo “bere”. Dalla usabilità visibile dello strumento bicchiere io devo poter passare alla visione dell’esperienza interiore: il bicchiere deve insomma poter diventare “esperienza del bere”. Se non posso operare questa connessione mi è vietata l’esperienza e il bicchiere resterà muto. Ci si potrebbe fermare, come impone la postmodernità, a raffigurare questo vuoto interiore come ineluttabile perché, come dice Brodskij, siamo “un fascio di nervi” che ha rinunciato ad ogni principio. Ma così rinunceremmo anche ad ogni possibilità di fare esperienza.
Il fantastico rappresenta quindi, nella mia esperienza di scrittura, il modo di operare un tentativo di riconnessione; è, a tutti gli effetti, la prospettiva vista dall’”altra porta”. Da questo punto di vista è interessante registrare l’equivoco che si è instaurato tra fantastico e onirico. Qualcuno infatti ha parlato, in merito a Racconto d'inverno, di sogno, di “onirico”, non considerando la tessitura simbolica che prevale ad un’attenta lettura. C’è un sottotesto, a tale riguardo, che difficilmente può essere contestato. Eppure la questione potrebbe essere interessante: dall’onirico al simbolico potrebbe non esserci soluzione di continuità. Una lettura psicanalitica avrebbe vita facile, ad esempio, nell’individuare nella casa-faggeta-forra l’inferno dell’utero.
Ma se si fa dell’inferno un utero si rischia di fare al tempo stesso dell’utero un inferno. E non credo sia questo il senso ultimo del testo.
Viviamo un’epoca che rigetta qualsiasi idea di realtà ambigua, tollerando il sogno solo se controllato da specialisti capaci di tradurre in cifre di ogni cosa ma impotenti di fronte alla più facile aritmetica del dolore. E il fantastico, di conseguenza, è accettato solo nella misura in cui lo si costringe ad essere separato dalla realtà. Di qui l’enorme successo di alcuni generi specifici come, ad esempio, il fantasy. Ma Todorov avrebbe parlato a questo riguardo, e più correttamente, di “letteratura del meraviglioso” per contrapporla alla “letteratura del fantastico”. Il fantastico infatti mette in dubbio il paradigma di realtà in modo più sottile ma anche più profondo. E può utilizzare il sogno senza mai identificarvisi. Racconto d'inverno, percorrendo questa strada, tenta la visione totale, non l’incubo; la rivelazione, non il sogno.
19) La “Casa” in Racconto d'inverno è il luogo in cui gli avvenimenti giungono a compimento e i destini dei personaggi si incrociano secondo un’architettura dei dettagli e della narrazione davvero miracolosa. Qual è il senso di questa casa-labirinto all’interno dell’economia generale di Racconto d'inverno?
Sempre con riferimento alla casa, la discesa negli scantinati è una delle parti del romanzo più inquietanti e nello stesso tempo potenti dal punto di vista espressivo. Qual è il senso simbolico della discesa all’interno della “Casa”, in luoghi così bui e angosciosi ?
La casa è davvero l’elemento simbolico più pervasivo del racconto, una sorta di fulcro che opera sia in senso orizzontale che verticale. È una sorta di “organo” che attrae e respinge. Il protagonista la affronta dapprima restando vittima di uno smarrimento. A questo sentimento reagisce con caparbietà raziocinante, perpetuando un errore che è anche il suo estremo tentativo di difesa. La casa, comunque la si voglia considerare, rimane il centro del racconto. Dalla casa si sfugge per poi ritornarvi ed essere costretti ad accettarne la sfida. Lo sbandato deve affrontare il suo organo centrale; deve, cioè, per tornare a quanto detto sopra, portare a compimento la sua esperienza. Non saprei, come suggerito da qualcuno, semplificare la questione attribuendo un significato preciso a questo polo propulsore. Si è parlato di casa-coscienza ma non so dare conferme in tal senso. D’altronde gli scantinati, per continuare la metafora, potrebbero agevolmente essere visti come una sorta di inconscio o materia pre-razionale. Si tratta di un livello di testo che non mi sento di negare. Ma nello stesso tempo nemmeno di assolutizzare. È una prospettiva da prendere in considerazione senza accettarla come l’unica possibile.
20) Nella lettura di Racconto d'inverno colpiscono alcuni riferimenti simbolici ricorrenti: la forra, la faggeta, la casa. Tutti simboli del femminino, della protezione, del grembo materno. Ma all'interno della casa, la stanza interna sembra racchiuderli tutti in un modo intimo e profondo. E negli ultimi capitoli ritornano con maggiore forza e drammaticità con la comparsa della sorella della guida. Quale importanza racchiude la femminilità e la simbologia sessuale in Racconto d'inverno ?
C’è un evidente accostamento tra sessualità e morte, in Racconto d'inverno, tra femminilità intima e scioglimento. Si tratta, però, di intendere queste due polarità come sinonimo di passaggio, più che di fine. Infatti sia l’elemento simbolico del pozzo-cordone ombelicale, sia quello della sessualità “mostruosa” rappresentata nella scena finale, dell’incontro tra lo sbandato e la sorella della guida, fanno da elemento di congiunzione tra una prima e una seconda dimensione. In questo senso è il passaggio, appunto, che viene sottolineato in modo ossessivo. E come preparazione al passaggio l’elemento materno, protettivo, è indubbiamente rinforzato dalle simbologie della forra e della faggeta. L’espressione “forra delle cosce” ne è un evidente sottolineatura.
In questo senso il “femminile” è un polo di trasformazione privilegiato nel racconto, soprattutto perché è condensazione di diversità, materia di un misterioso legame con l’”altro”. Solo nel rapporto con l’altro e la diversità, infatti, è possibile qualsiasi trasformazione; solo in quel modo si può passare di dimensione facendone esperienza. Sessualità, femminino e morte sono facce della medesima esperienza, quella della trasformazione come unica possibile via di accettazione del reale. L’opposizione a tale direzione è il sintomo di una fragilità ancestrale, e si esprime con un blocco e una iterazione dell’errore. Lo sbandato, infatti, resiste ripetutamente di fronte alle varie possibilità di trasformazione che incontra. Solo nel finale, sembra, riesce ad acquisire una qualche consapevolezza: si volta contro i suoi carnefici in un’offerta, le mani colme d’acqua di fronte ai soldati “con gli occhi pieni di un orrore a loro sconosciuto”.
Questo nei caratteri più riconoscibili del testo. Ma non si può, comunque, evitare di ritornare su un elemento connettivo e sentimentale che determina il clima stesso della narrazione; una problematicità e drammaticità diffuse. Il passaggio, insomma, non è mai né facile né agevole, e la sofferenza e il dolore sono i tratti di cui è intessuta l’esperienza della trasformazione. Altrimenti potremmo equivocare tale processo come un rito già scritto, parte di una religione compiuta. È l’ansia religiosa a prevalere in Racconto d'inverno, non la religione.
21) Il tema del “fallimento” e quello della “morte” appaiono come elementi importanti in Racconto d'inverno. È stato peraltro osservato come, in realtà, la morte non sarebbe da considerare il centro dello stesso. Al contrario è stato rinvenuto il senso profondo di questo romanzo esistenziale, iniziatico (vuoi in senso religioso, vuoi in senso spirituale) in questo passo incantevole del Capitolo XL:
"«Nessuno muore mai» mi diceva «e la morte non esiste. Tutto è immortale e tu non hai colpa»".
Tale frase, che appare ricollegarsi (a livello circolare) a quanto premesso nello splendido incipit del libro, sembra dare un segno, un auspicio positivo, di “salvazione”, e forse la motivazione dell’intera opera. Tale tematica della “salvazione” appare peraltro permeare anche le stupende tre poesie esposte nell’interessante mostra di Ettore Frani “Elegia”, a fianco alle incantevoli opere dell’artista presso la Galleria Maniero a Roma (in Via dell’Arancio n. 79; la mostra si è tenuta dal 19 marzo al 30 aprile 2010 a Roma.
Parimenti ci imbattiamo nel Capitolo XL nella bellissima frase:
“L’errore era stato quello di perdersi dentro ai percorsi insensati di ciò che era dentro le mura e dentro di me. La salvezza, probabilmente era nel tornare al mondo, nel tornare alla guerra accettandone la violenza immotivata ma necessaria”.
Pare pertanto che la salvezza arrivi non dalla fuga, non dalla Casa, che accoglie ma sembra anche, alla fine, distruggere, bensì dall’ accettare “virilmente” il proprio destino, quale esso sia (la ginestra leopardiana?).
Si riconosce in una o in entrambe queste immagini profonde e possiamo considerarle, in un certo senso, i “messaggi” conclusivi del libro ?
Come dicevo sopra, la casa, la faggeta e gli scantinati mi sembrano più un elemento di passaggio che di fuga. Non dovrebbero perciò essere intesi unicamente come polarità opposta a quella dell’accettazione. È nell’affondare dentro la casa, dentro la faggeta, che si può delineare una possibilità di attraversamento, di superamento. In altre parole, per sperimentare in modo compiuto un destino, Racconto d'inverno traccia un percorso che non si sintetizza in un’opposizione dialettica: bisogna entrare in rapporto col sé (la casa, la sessualità, la forra) per poter accettare il mondo.
In questo il fallimento e la morte sono tappe di un percorso, interne all’esperienza stessa della vita. E lo sbandato le percorre nonostante se stesso. Non si può procedere oltre se si salta anche solo un momento del cammino.
Ma la sfida è nell’oggi, nell’oceano del postmoderno di cui siamo relitti e che sembra voler annullare ogni possibilità di avanzamento negandone la legittimità. Il postmoderno ci pone di fronte a un indistinto di relitti senza dignità di soggetto quanto il moderno assegnava al soggetto-relitto capacità divinatorie o profetiche. Sul piatto ci sono il fallimento e la morte, ancora.
Racconto d'inverno si situa in questo spazio oltremodo scomodo.
22) Visti gli eccellenti risultati, continuerà la Sua attività di scrittore, e in tal caso anche in parallelo a quella di musicista?
Pur trattandosi di un gruppo di lettura per il libro, l’interesse per la suite musicale del gruppo ARPIA è stata manifestata da molti partecipanti del gruppo. È previsto a breve qualche concerto del gruppo degli ARPIA avente come tema Racconto d'inverno a Roma o in altre città d’Italia? È prevista qualche pubblica lettura delle pagine del Suo libro, come quella suggestiva di Fabio Mastropietro dell’ “incipit” del libro?
L’attività della scrittura è una necessità (o condanna feconda) davanti alla quale non ci si può tirare indietro. Così come la composizione. Senza sacrificio e dedizione non c’è giustificazione a un’ossessione creaturale di questa consistenza. Non può esserci quindi rapporto causale tra atto creativo e suoi esiti qualitativi. Non si scrive perché i risultati ottenuti sono considerevoli, ma perché non si può fare altrimenti.
Per ciò che concerne invece gli appuntamenti pubblici previsti posso dire sin d’ora che, in occasione dell’uscita del libro, si terrà una lettura-concerto a Roma il prossimo autunno. In quell’occasione vi sarà spazio per la musica degli Arpia e per la lettura di brani sia da Racconto d’inverno che da Racconto di primavera. Altri appuntamenti seguiranno senz’altro in altre città, ma non so dare a riguardo notizie certe sin d’ora. D’altronde, sia per quanto riguarda la scrittura che la musica, ritengo debbano essere privilegiati i momenti più intimi, e che la spettacolarizzazione, il concetto stesso di evento artistico, rappresenti una ferita e un ostacolo serio per la verità dell’espressione.
23) Da quanto appreso abbiamo saputo che il prossimo romanzo sarà diverso da Racconto d'inverno. Le diversità a cui si fa riferimento sono da ascrivere agli aspetti formali o contenutistici del testo ?
Ad entrambi, credo. Ma non sono in grado di affermarlo in modo del tutto attendibile, visto il mio coinvolgimento. Comunque in Racconto di primavera, questo il titolo del romanzo, le diversità con Racconto d’inverno potrebbero dar luogo ad equivoci. Perché il legame tra i due libri è profondo, a partire dal titolo. Sto lavorando infatti ad un ciclo delle stagioni che mette in campo una ricerca sul tempo; la scoperta del tempo, come già detto sopra, è forse il movimento attraverso il quale è cresciuta e fiorita la mia prosa. Non so se riuscirò a portare a termine il progetto, ma si tratta di un lavoro nel quale sto spendendo tutto me stesso.
Altri elementi sul nuovo romanzo credo sia inutile, a questo punto, aggiungere; tranne che si tratta, stavolta, di una storia con molti personaggi, ambientata in un periodo e in un luogo definiti: la Pasqua bassa del 1989 tra Arcevia e Urbino.
24) È recente la notizia di un Suo nuovo racconto inedito Libero, ove si nota una scrittura sempre piena e corposa, una prosa che si sente, si avverte: in modo opposto, ma nello stesso identico modo di Racconto d'inverno, ci si ritrova a fare esperienza di questa scrittura particolarissima. Stavolta più lieve, meno inquietante, ma pur sempre ricca di ambiguità e ombre.
Il breve racconto peraltro è accompagnato dal bel saggio di Gianluca Pulsoni, L’infinito opaco – Nota alla scrittura di Leonardo Bonetti, che mettendo in parallelo Racconto d'inverno, l’omonima suite musicale e Libero, si sofferma in particolare su due concetti, quello di opaco/attrazione per l’indefinibilità e quello di saturazione. Si riconosce in questa analisi della sua scrittura così rigorosa e della sua poetica delineata da Pulsoni ?
Nella mia scrittura sembra emergere ad ogni prova la stessa tensione verso il reale. In questa tensione c’è a ben vedere una divaricazione e mai un’adesione totale. Forse a livello profondo - e la lingua è lo strumento più sensibile a mia disposizione per rilevarlo - la realtà delle cose e quella più intima mantengono un’ambiguità senza memoria costringendomi a segnalarlo in modo inconsapevole. Voglio dire che la pulsione stessa dell’oggetto diviene indefinita pretendendo un corrispettivo linguistico. Io vedo l’oggetto pulsante, se così posso dire, e lo riscrivo. E l’occhio ha la sua parte di strumento musicale. C’è una partitura fatta di tagli, di inquadrature, che rafforza il legame tra il mio modo di scrivere e la progressione del montato. Spesso mi trovo a dirigere una sequenza musicale disponendo l’occhio secondo prospettive diverse, a volte insolite. Ma è un’esigenza impossibile da eludere.
Pulsoni ha, in questo senso, centrato un aspetto su cui non avevo avuto modo di riflettere a sufficienza, ed è il concetto di saturazione. È vero infatti che spesso la luce è giocata, in Racconto d’inverno, come all’interno di una fenomenologia dell’occhio. L’occhio della mia scrittura, insomma, è il custode rivelatore di una sovraesposizione del dettaglio. E in questo si intravede l’elemento che potrei definire più isterico e meno magico del mio realismo.
Dopo gli interventi e commenti entusiasti dei partecipanti del gruppo e di coloro che comunque ci hanno seguito fedelmente fino a queste che sono le ultime battute del nostro gruppo di lettura, per venire incontro ai desideri di tanti, abbiamo pensato di aprire una discussione sul racconto Libero in un nuovo gruppo di lettura
La informo inoltre che dato il grande entusiasmo riscontrato nel gruppo di lettura su Racconto d’inverno, che troverà ulteriore linfa con il nuovo gruppo di lettura sul suo racconto inedito Libero, è emerso da parte dei partecipanti il grande desiderio di creare, come altri gruppi monotematici, un gruppo specifico sul nostro network aNobii (cui in futuro potrebbe affiancarsi parallelamente un altro gruppo su facebook) su di Lei. Partendo proprio dall’esperienza bellissima del gruppo di lettura il gruppo ha preso il titolo: “Leonardo Bonetti: ‘Racconto d’inverno’ e oltre”.
Il gruppo è “decollato” martedì il 25 maggio 2010 e ha avuto già un entusiastico seguito da parte dei Suoi lettori (al momento consta di una settantina di iscritti), con varie iniziative e discussioni, alle quali ne seguiranno molte altre.
L’intervista, per quanto mi riguarda, è finita. Nel ringraziarLa per la sua disponibilità, e nel salutarLa con preghiera i estendere il saluto anche agli altri componenti degli ARPIA, se vuole può lasciare un saluto ai suo affezionati lettori di aNobii, nonché agli appassionati della musica della band romana.
Il rapporto con i lettori è per chi scrive un momento importante di consapevolezza. Su aNobii si è sviluppato un libero scambio secondo una pratica inconsueta e innovativa, che ha prodotto una discussione di sorprendente lucidità e spessore. Devo essere sincero: non mi sarei mai aspettato un tale interesse e voglio ringraziare ancora tutti coloro che, venendo in contatto con il mio libro, hanno sentito l’esigenza di misurarsi con un’interrogazione o un dubbio. Se, infatti, Racconto d’inverno è servito per dare corso a una ricerca intima intorno a qualche parte profonda di sé, allora posso ritenermi davvero soddisfatto.
A tutti vanno i miei saluti e i ringraziamenti più sinceri.
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Intervista Thriller Magazine
Intervista a cura di Marilù Oliva
Leonardo Bonetti, letteratura e musica
Leonardo Bonetti è nato a Roma nel 1963. Sono onorata di ospitarlo nella mia rubrica e di poter parlare della sua arte, della sua scrittura, di quella creatura trigemina di poesia, racconto e melos che è Racconto d’Inverno. Racconto d’inverno, infatti, oltre ad essere il suo primo romanzo, è anche una lunga suite musicale (ARPIA, Racconto d’inverno, Musea Records, 2009).
Il tuo romanzo “Racconto d'inverno” sta riscuotendo molto successo. É andato in ristampa senza aver avuto promozioni particolari, se si eccettua l'inserimento d’obbligo nel catalogo Marietti, ha suscitato molte discussioni estremamente positive su anobii, ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti quali il secondo posto al Premio Carver, l'ammissione tra i primi dieci del Premio Città di Siderno e attende l'esito del Premio Nabokov, come uno dei cinque finalisti oltre ad essere stato scelto dai lettori del Sole 24 Ore come uno dei dieci libri più gettonati dell’anno. Ti aspettavi questo successo?
Indubbiamente no. Ad essere sincero ho iniziato a scrivere Racconto d’inverno reduce da un vero e proprio fallimento sul progetto originario, cioè musicare Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi. Solo allora, infatti, ho capito che avrei dovuto scrivere io il romanzo partendo proprio dal testo landolfiano. Seguendo un’esigenza di musicalità a cui dovevo rispondere, un bisogno cioè di dare fondo a un’urgenza di tipo ritmico e musicale. D’altronde è questo il mio rapporto con la parola. La parola per me segue un senso e un sentimento fondamentalmente musicale. E la trama diventa da questo punto di vista un contrappunto ritmico, un contesto di misure e proporzioni da rispettare nei suoi rapporti interni. I personaggi stessi agendo nei termini di questo “paesaggio armonico”.
Così che non potevo immaginare alcun tipo di successo con una scrittura tanto diversa e contro tendenza. Fatto che dimostra due cose essenziali: quanto poco si possa prevedere dell’esito di un libro e quanto sia limitato il nostro approccio sull’argomento.
Il libro non si può certo catalogare come romanzo di genere o romanzo commerciale. Premesso questo, stupisce la quantità esorbitante di lettori tanto più in un paese in cui, come gli editori stessi lamentano, si legge poco. Esiste dunque una fascia consistente di lettori esigenti, lettori che eludono le strategie editoriali di marketing?
È la lezione che dovremmo imparare visto che con ogni evidenza non riusciamo a capire molto della realtà sociale e culturale di questo paese. C’è una verità più profonda delle teorie che spesso andiamo ripetendoci sull’effettivo degrado del nostro presente e sulle sorti del nostro futuro. L’uomo ci stupisce, perché c’è un aspetto profondo che sfugge a ogni tentativo di razionalizzazione. È l’elemento umano, sempre sorprendente, a salvare. Accade così che un libro come Racconto d’inverno, pur essendo “marginale” all’interno dell’industria culturale, sia oggetto di attenzione e ottenga un riscontro tutt’altro che prevedibile. I lettori esigenti ci sono, dunque, e sono molti; e spesso si indirizzano sui ‘classici’ per sfiducia dopo aver patito mille delusioni.
Com’è il rapporto con chi ti segue? Ti sei fatto un’idea della/e tipologia/e di lettori?
Dalle molte mail che ricevo (e mi scuso con tutti quelli cui non ho potuto rispondere solo per motivi di tempo) mi sono fatto l’idea che i lettori di Racconto d’inverno siano i più disparati.
Ma prevalgono coloro i quali testimoniano un interesse appassionato e disinteressato per il libro come oggetto di ricerca personale. Lettori, cioè, avvertiti, ma non di tendenza. Liberi cioè da particolari schemi o, comunque, alieni da tentativi di scrittura, come spesso accade invece di incontrare tra gli appassionati del settore. Lettori puri, insomma, una categoria che sembrerebbe in via di estinzione ma che in realtà è particolarmente nutrita.
Hai dichiarato di averlo scritto per “una necessità fisiologica”: all'inizio il tuo intento era semplicemente quello di musicare “Racconto d'autunno” di Tommaso Landolfi, ma non riuscendoci ti sei convinto di dover riscrivere il romanzo a partire dall'incipit landolfiano. Ci spieghi meglio il rapporto tra necessità ed arte?
L’arte o è necessaria o non è. E la necessità dell’arte equivale in ugual modo alla sua inutilità. Tanto inutile quanto necessaria, quindi. Finalità esterne all’atto creativo provocano corruzione e morte precoce dell’opera. Lo scrittore ha di fronte un compito gravoso ma è aiutato dal bisogno intrinseco di esprimere il suo mondo, il mondo che lo abita, per dir meglio. Un mondo che è suo solo per il tempo necessario ad ospitarlo dentro di sé. Dopodiché se ne libera una volta per tutte con la pubblicazione perdendo ogni rapporto privilegiato con l’opera. A quel punto è uno tra i tanti che possono intervenire intorno al testo, ma sempre da posizione esterna.
Qual è lo shining di “Racconto d'autunno” di Tommaso Landolfi?
La casa-coscienza, direi, quell’opprimente e materno luogo di incrocio in cui prendono vita le mille domande sull’essere. E l’ambiguità del reale, con le sue mille sfaccettature.
Quanto è durato il lavoro di revisione del tuo “Racconto d’inverno”?
Ho finito di scrivere la prima redazione nell’estate del 2007. Dopodiché una seconda versione più lunga è stata terminata solo l’anno seguente. Un anno ancora, dunque. Ma le revisioni e le riscritture si sono susseguite perché non riesco mai a lasciare un testo se non quando è definitivamente pubblicato. A febbraio lavoravo ancora di lima mentre correggevo le bozze. Non si tratta di un’esigenza di perfezione, forse del timore di abbandonare il testo, del bisogno di continua ricerca sulla lingua, sulla sintassi. Sono i contesti linguistici, ritmici e musicali, come dicevo, a richiedere in continuazione un assestamento, una ridefinizione.
É stato difficile il passaggio alla pubblicazione?
È stato più facile del previsto. Anche in questo caso i timori di un esordiente che non appartiene a nessun gruppo o consorteria che dir si voglia (scrivo da sempre e compongo con gli ARPIA da ormai venticinque anni, ma non avevo mai pubblicato altro che musica), sono stati fugati in meno di quindici giorni. Giovanni Ungarelli, infatti, Direttore Editoriale della Marietti e già capo in Rizzoli negli anni novanta, mi ha telefonato di persona per propormi la pubblicazione. Ho ricevuto anche offerte da altre case editrici, ma alla fine ho optato per la Marietti soprattutto per la fiducia e la qualità umana di Ungarelli. Sempre con la Marietti pubblicherò a settembre il mio prossimo romanzo e, lo confesso, mi trovo tanto bene da non sentire alcuna esigenza di inviare ad altri i miei manoscritti. Si è instaurato, con l’editore, un legame di reciproca fiducia. Cosa che mi permette di lavorare con la serenità necessaria.
Ora sei impegnato, insieme ad altri undici scrittori, in un progetto di grande livello e interesse, una traduzione dell'Antico Testamento. Conosci anche l’antico ebraico? Quale ritieni sarà l’arricchimento intellettuale di un lavoro così impegnativo e profondo?
Cerco di orientarni nell’antico ebraico attraverso i repertori e operando collazioni continue con le Septuaginta greche. È per me un onore collaborare con altri scrittori ben più importanti e famosi in questo progetto editoriale così affascinante; spero di essere all’altezza e non perdere la bussola nel mio lavoro di ricerca. Da questo punto di vista la traduzione del testo biblico opera in me un approfondimento continuo sui materiali di lavoro, costringendomi a misurare sull’essenziale la forma espressiva.
Ci anticipi qualcosa del tuo prossimo romanzo?
Sarà un libro del tutto diverso da Racconto d’inverno. Un romanzo dalle dimensioni più generose, dilatato nella luce quanto l’altro si condensava nel buio e nel silenzio. Una sorta di educazione sentimentale e di variazione sull’infanzia perduta, sulla giovinezza sperata, sulla felicità dell’essere. Felicità obliqua, mai scontata, a tratti disperata. Felicità senza motivo e perciò stesso felicità più potente.
Scrivi da sempre ma nasci come musicista. Del tuo gruppo, gli Arpia, è la suite musicale di Racconto d'inverno, uscita in Francia. Ci spieghi questa compenetrazione tra musica e parola?
Musica e parola sono per me indivisibili. Non ce la faccio proprio a separarle. Ed è in questo flusso pre-razionale che sento agitarsi il nucleo più profondo del mio bisogno espressivo. C’è una semplicità, in questo nucleo, a dispetto delle difficoltà formali che la mia scrittura impone al lettore. Esiste una musica della parola, insomma, che rappresenta la materia più viva su cui far reagire ogni esperienza creativa. Ed è un linguaggio più diretto e universale. Possiede una grammatica identica più o meno a tutte le latitudini. Un linguaggio pre-razionale ed emotivo e, in certi casi, sentimentale.
Ora, imporre gli aspetti “musicali” della parola, appare oggi operazione tanto necessaria quanto sovversiva. Viviamo tempi di cinesizzazione letteraria, di non-luoghi, di omologazione. È la letteratura del non-luogo ad avere il sopravvento su ogni tentativo di libertà espressiva. Ma è inutile. La parola è musica, e negare questo aspetto non produce che fallimenti estetici. Nella parola, infatti, l’elemento significante assume un’importanza del tutto particolare dal punto di vista melodico e ritmico. Non è un caso che sin dall’antichità la poesia fosse cantata, che i poeti usassero accompagnarsi con strumenti musicali. Eppure la parola esprime anche l’anima razionale, il senso più che il significato. È una porta e al tempo stesso una chiave di interpretazione del mondo fatta dai sensi di cui è composta.
Ci racconti qualcosa del tuo gruppo? Quando e come nasce, dove suona...
Gli Arpia nascono venticinque anni fa, circa. Nel 1984, ad essere precisi. La formazione iniziale era di tre elementi, influenzata dalla cultura rock e progressiva tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. Una vita di musica, quindi, che ha prodotto alcuni dischi, di cui l’ultimo, appunto, è il sogno stesso del libro; e una vita di musica suonata, nei teatri, nei locali, nei festival. Un’esperienza straordinaria in cui la creatività ha assunto dimensione collettiva, di gruppo. Suonare insieme vuol dire condividere attraverso il corpo, gli strumenti suonati, una vibrazione e un’energia misteriosi. La musica ti attraversa, non ha luogo se non attraversandoti. Non c’è dubbio, è il luogo della musica il più misterioso.
Ci saluti con una citazione in musica tratta dalla suite musicale di “Racconto d'inverno”?
Amore mio,
non hai colpa ché tu non lo sai:
nessuno muore mai.
La morte non siede
dentro al cerchio d’immortalità,
morte non fa paura.
Se mi segui
segnerò la tua strada
nella tua mano
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Intervista a Arlequins
a cura di Francesco Fabbri
Mi sia concesso di partire non dal presente, ma dal passato prossimo, ossia da quello che, in un certo senso, si può identificare come il punto nodale del nuovo corso di Arpia: "Terramare" (2006). Mentre dopo di esso abbiamo dovuto attendere ‘solo’ tre anni per avere il recente "Racconto d'inverno", per risalire alla prova discografica precedente bisogna tornare indietro addirittura di undici anni, ovvero a "Liberazione" (1995)... Cosa ha motivato un silenzio tanto lungo? Vi eravate proprio sciolti, oppure attraversavate una fase di "vita sospesa"?
No, non ci eravamo sciolti. Ma indubbiamente alla fine dei novanta abbiamo attraversato un periodo di travaglio creativo. C’era qualcosa di cui non eravamo del tutto coscienti che ci spingeva a ricercare verso altri lidi. In fondo, il percorso che ci ha spinti a "Liberazione" era stato contrassegnato da una ricerca verso la “realtà”, la concretezza storica. Partivamo infatti da una dimensione lirico-filosofica sperimentata nei primi demo-tape: "de lusioni", "Resurrezione e Metamorfosi", "Bianco zero". "Liberazione" ha significato la scoperta della storia nella sua dimensione più piccola e drammatica, in cui l’individuo appare vittima oggettiva di una realtà incomprensibile. Su questa direttrice alla fine degli anni novanta abbiamo quindi compiuto l’ultimo passo conseguente, quello di una spersonalizzazione frutto della discesa nel reale frammentato, attualizzato nella vita sociale e nell’immaginario individuale. Nel tempo quindi della fine di ogni specificità progettuale, di ogni significato prospettico dell’esistenza e del mondo.
A cavallo del 2000 abbiamo allargato la formazione con i contributi esterni di Paola Feraiorni alla voce e Tonino De Sisinno alle percussioni, suonando molto nei locali con materiale nuovissimo, mai pubblicato su disco. E alla crisi creativa ha corrisposto quindi – paradossalmente – una produzione torrenziale. Credo infatti che in quel periodo abbiamo composto circa una ventina di pezzi nuovi. Il fatto che non siano stati ancora pubblicati ha sicuramente un significato profondo, non ancora del tutto indagato da noi stessi. Ma prima o poi dovremo fare i conti con questo “rimosso”, se così si può dire.
Quanto è stato importante "Terramare" circa il porvi nuovamente in gioco?
"Terramare" è uno spartiacque importantissimo. Innanzitutto per l’ufficializzazione (anche se ancora non del tutto compiuta) dell’allargamento del gruppo con la presenza “certificata” di Paola Feraiorni e Tonino De Sisinno. Quindi in una sorta di riappropriazione del destino inscritto nel progetto Arpia. Infatti si sono recuperati brani che erano stati composti molto tempo prima, a ridosso di "Liberazione": “Luminosa”, “Umbrìa”, “Diana”, “Mari” tra gli altri, innestandoli sul progetto che sempre più stava prendendo corpo, e cioè comporre una sorta di affresco sull’eros, come energia primigenia e mitica (non analitica, quindi). Siamo quindi usciti dal territorio in cui ci eravamo costretti come una sorta di bagno in linguaggi e codici non del tutto “nostri”. Ricordo il dolore sottile e nello stesso tempo il senso di liberazione nel suonare brani che potevano essere paragonati a cover di canzoni mai scritte da gruppi mai esistiti. Il percorso di uscita è stato lento ma ha rappresentato, se possibile, una riappropriazione della nostra personalità e del nostro stile ancora più profonda. Così profonda che ha messo radici dappertutto. È come se avessimo murato l’albero Arpia per evitare che danneggiasse le case vicine. E che per anni avessimo raggiunto lo scopo “edificante” di spegnerne ogni movimento.
Ma a un certo punto ci siamo resi conto delle prime crepe, sottili. L’albero era ancora vivo e per fortuna aveva la forza di mettere a rischio le certezze più sedimentate. La creatività o è rischiosa o non è.
E' magari da ascrivere al gran desiderio di tornare in scena, dopo il lungo ritiro, il fatto che "Terramare" suoni così intenso, se non addirittura aggressivo?
No. Credo più semplicemente che l’aggressività sia da ascrivere al tipo di musica che avevamo sperimentato negli anni precedenti. Il portato di quell’esperienza è infatti tutta dentro "Terramare".
Veniamo al nuovo progetto, così meritevole e complesso: "Racconto d'inverno", non solo da ascoltare ma anche da leggere. A tal proposito, è ovvio che la gestazione di un libro non possa avvenire in tempi brevi, per cui ti domando: da quanto ci stavi pensando?
Già a fine 2006 avevo in mente un progetto ben diverso. Stavo cercando di musicare un romanzo che avevo iniziato ad amare già da anni e che mi caricava di suggestioni musicali. Si trattava di "Racconto d’autunno" di Tommaso Landolfi. Ho provato per due o tre mesi, infine mi sono reso conto che non ero in grado di riuscire. O che forse il romanzo si opponeva ai miei tentativi. Così ho capito all’improvviso che avrei dovuto scrivere il mio romanzo a partire da quello di Landolfi. E la cosa mi ha preso a tal punto che una prima redazione era pronta già nell’estate del 2007. Ma si trattava solo di una prima stesura sulla quale ho poi lavorato fino alla correzione delle bozze, cioè fino al marzo 2009.
Come definiresti la complementarità dell'opera? In altri termini, è nato prima il libro, prima il disco, oppure le due cose assieme?
Non so se questo può essere un limite o un pregio, ma la realtà è che la scrittura e la composizione sono andate di pari passo quasi sin dall’inizio esaurendosi pressappoco insieme. Solo nella parte in cui ho lavorato di lima sul testo e arrangiato insieme al gruppo i due lavori hanno preso una via autonoma. Anche se non credo si possa capire appieno "Racconto d’inverno" se si stacca la musica dal romanzo. Per me vivono insieme. Insieme sono nati e insieme continuano ad esistere. Questo non vieta ad un lettore di privilegiare il testo o ad un ascoltatore di fare il contrario. Ma ritengo che qualcosa vada perso. In quanto "Racconto d’inverno" non è esclusivamente un romanzo né esclusivamente un disco.
Già in "Liberazione" avevate trattato la guerra civile; in "Racconto d'inverno" tale tematica ritorna, anche se più sullo sfondo della vicenda. Da dove sorge il tuo interesse in tal senso?
È una vera ossessione. La resistenza, intendo. Ho l’impressione che sia un discorso sulle origini, alla fine. Insomma, se devo rappresentarmi un inizio qualsiasi, di una storia o di un discorso sull’attualità, non posso fare a meno di partire da quel periodo preciso che è il biennio ‘43-‘45. Non che in "Racconto d’inverno" ci siano chiari riferimenti in tal senso. Ma è indubbio che molte suggestioni abbiano lavorato in me nella costruzione della vicenda. A cominciare dal fatto che l’incipit landolfiano, collocato storicamente proprio in quel frangente di anni, non può certo far sorgere molti dubbi a proposito.
Proprio ora sto lavorando ad un ciclo di racconti sulla resistenza, ad esempio. Già in "Liberazione" poi, il riferimento alle origini della Repubblica era segnato quasi come una origine di storia collettiva, nascosta solo in superficie da una giustificazione d’occasione (il cinquantenario della Liberazione).
Ma è chiaro che la potenza d’immagine e di lingua che sprigiona da quei fatti, filtrati ovviamente attraverso un’epica e una letteratura del periodo di cui mi sono nutrito (Fenoglio, Calvino, Pavese, Vittorini), ma anche neoespressionista (come Landolfi, Gadda, Bufalino, D’Arrigo ad esempio), fa sì che io sia quasi costretto a ritornare in modo testardo al punto ogni qual volta devo costruire un testo di tipo narrativo. Non è un caso che con "Liberazione" abbiamo scoperto la storia “grande” attraverso le storie “piccole” manzonianamente intese. E che di lì ci siamo avventurati anche alla scoperta di una realtà più vicina, ma sempre socialmente interessata, con un progetto che, come ti dicevo, non ha visto ancora la luce ma che potrebbe essere uno dei prossimi lavori del gruppo.
Nella mia recensione ho scritto che, a parte le dichiarate influenze del gotico, di Landolfi e Tarkovskij, nel tuo libro sono ravvisabili reminiscenze del decadentismo italiano e dell'introspezione sveviana. Condividi questa analisi?
Sì. Il decadentismo è presente ed agisce “alle spalle”, se così posso dire. Se mi permetti, infatti, è d’obbligo fare una precisazione. Il decadentismo presente in "Racconto d’inverno" è una direttrice da inquadrare in una prospettiva storica più determinata. Affermare infatti che "Racconto d’inverno" sia opera decadente sarebbe azzardato. Credo infatti – purtroppo – che con questo romanzo non si esca dal territorio sterminato (dal punto di vista materiale) e allo stesso tempo angusto (da un punto di vista artistico) del postmoderno. "Racconto d’inverno" infatti è opera citazionista e non solo; parte d’attacco dall’incipit di "Racconto d’autunno" di Landolfi, denuncia prestiti dichiarati da un codice linguistico addirittura estraneo a quello letterario (il film Stalker di Andrej Tarkovskij); in più, come se non bastasse, contamina il testo letterario con una composizione musicale e dichiara apertamente, sin dalla quarta di copertina, che non di sola letteratura si tratta, ma di due opere in una o di una sola scritta con due linguaggi… insomma, ce n’è d’avanzo per definire "Racconto d’inverno" una lavoro ascrivibile in tutto e per tutto alla ampia e dominante area del postmoderno.
Ma in effetti il richiamo al moderno (e quindi al decadentismo) è comunque evidente. Per definire meglio il concetto mi piace usare un’immagine. Se devo collocarmi dentro il postmoderno (scelta obbligata in un mondo in cui la digitalizzazione, l’elettronica e la globalizzazione hanno frammentato il territorio fino a farlo implodere in escrescenze di dubbia natura come i non luoghi ben descritti dalla antropologia di Augé e dalla sociologia di Bauman), allora mi metto “di spalle”. E mi metto di spalle perché ho “nostalgia” del moderno. La mia è una letteratura e una musica che esprime una “nostalgia del moderno” a partire, evidentemente, dal postmoderno. Ci sono dentro fino al collo perché sono figlio del nostro tempo. Ma si esprime in me una tensione verso una metanarrativa che rimane estranea al postmoderno ortodosso con le sue tendenze più ortodosse, che immagino alla stessa stregua di una deriva inarrestabile non solo dell’arte, ma anche della cultura e dell’intera civiltà occidentale.
In fondo, gli agganci con la letteratura di Landolfi e soprattutto con il cinema di Tarkovskij sono uno degli elementi di questa prospettiva. Un tentativo di riazzerare la questione per gettare di nuovo le fondamenta di un discorso sul mondo. Al di là dei media e nonostante i media. Non vorrei farmi raggirare troppo facilmente. È vero, sono un figlio degli anni del boom economico, allevato con la TV di stato e poi sgrossato al postmodernismo da quella commerciale. Intasato di pubblicità e gas di scarico. Rialfabetizzato dalla rete e dall’informatica. Sbattuto in un fascio di bit elettronici e digitali. Ma sono un uomo. E l’albero vicino casa mia è un albero. E mia figlia è una bambina che mi insegna da zero l’abc di un’esistenza non compromessa. E i miei alunni stanno a dimostrarmi tutte le mattine che c’è qualcosa di più vasto in ognuno di loro e che non è possibile eluderne la realtà. Qualcosa di scomodo, è ovvio, di faticoso e da affrontare con costanza, con pazienza, senza sconti.
Per tutto questo sono un postmoderno che lavora per la morte del postmoderno.
E "Racconto d’inverno" è un atto terroristico puro, pieno d’amore, contro la letteratura e la musica contemporanee. Contro una deriva culturale ben rappresentata dalle cosiddette “nuove tendenze”.
"Racconto d'inverno", come romanzo, è destinato a stupire chi già conosce - e ovviamente apprezza - il Leonardo Bonetti criptico ed ermetico degli Arpia "storici". Questa tua nuova tendenza a esplicitare con grande abilità e dovizia di particolari i paesaggi della natura e gli stati d'animo faceva già parte di te, oppure s'è sviluppata negli ultimi tempi come sedimentazione di esperienze passate?
“Non so risponderti che facendo un passo indietro. Non credo di essere responsabile fino in fondo per aver sviluppato questa determinata qualità. L’analitica descrizione degli interni e la predisposizione ad una espressione lirica del paesaggio si sono sviluppati con il racconto e per il racconto. E dentro l’ottica di un personaggio che parla al posto mio. Sono stato addirittura assediato da lui per mesi. Me lo ritrovavo prima di dormire, a muoversi, a pensare dentro di me.
Ampliando quest’ultimo tuo concetto, si dice spesso che un libro, e più in generale un parto artistico, è sempre e comunque autobiografico perché chi lo concepisce vi riversa giocoforza il proprio vissuto. Limitandoci adesso all'accezione comune del termine, nel tuo romanzo c'è un personaggio specifico nel quale hai inteso travasare parte del tuo essere? Oppure, appunto, vi sono varie peculiarità disseminate qua e là?
Ho già affermato che non posso essere considerato come l’artefice dell’opera in tutto e per tutto, e che i personaggi mi sono cresciuti dentro impossessandosi di ogni spazio possibile, ma è anche vero che questa spiegazione è con ogni evidenza insufficiente. Perché bisognerebbe anche aggiungere che qualcosa di me si è disseminata davvero in ogni cosa, persino negli alberi o nelle rocce. Che io mi sono liquidato fino all’ultimo in ogni aspetto del testo. Di più, che io sono persino evaporato, che il mio corpo stesso è evaporato incarnandosi nelle parole.
Passando al disco, e partendo dall'impatto esteriore, penso che agli appassionati non sia sfuggito che le copertine di "Terramare" e "Racconto d'inverno" sono sostanzialmente simili, mentre i contenuti (o perlomeno i modi con cui sono estrinsecati) divergono assai. Una discontinuità nella continuità?
“Spero che possa essere interpretata in questo modo, perché la continuità io la vedo anche nella sostanza musicale. Pur con un forte cambio di marcia contrassegnato, ad esempio, dal passaggio materiale di cui ho fatto esperienza passando dal basso alla chitarra acustica. In più l’entrata in pianta stabile di Paola alla voce ha determinato in maniera ancora più accentuata questa soluzione di continuità. Ma non credo che, nonostante le differenze indubbie con "Terramare", il nostro ultimo lavoro possa essere considerato come una frattura nel percorso artistico che portiamo avanti ormai da venticinque anni. E l’opera di Ettore Frani, lo straordinario pittore autore di entrambe le copertine e, anche, di quella del libro, rappresenta profondamente questo indissolubile legame tra i due lavori.
E' comunque fuori di dubbio che "Racconto d'inverno", versione CD, sia un po' spiazzante se raffrontato alla vostra produzione precedente. Certo, tratti acustici li avevamo già ascoltati in passato, ma sinceramente non ci si aspettava un intero disco unplugged. Come mai questa 'sfida', peraltro brillantemente superata?
Non l’abbiamo decisa né voluta. È venuta così, da sola. D’altronde il nostro metodo creativo è sempre stato contrassegnato da una libertà pressoché assoluta. Che a volte mette in difficoltà, come sempre dovrebbe accadere, soprattutto noi stessi. Abbiamo dovuto elaborare molto per questo passaggio, infatti. Ma si tratta di un fenomeno naturale, credo. Come in tutte le crescite. Si passa per infinite crisi e si fa qualche passo avanti. Ma spero che non sia finita qui, ovviamente. Tutto questo è possibile solo perché l’unico nostro interesse è volto all’espressione. Non abbiamo pruriti “comunicativi”, non cerchiamo facili successi, non dobbiamo rendere conto a nessuno e andiamo per la nostra strada consapevoli che i risultati ottenuti sono sempre parziali, che l’impegno profuso non è mai sufficiente, che la dedizione che richiede un compito di questo genere è del tutto inadeguata alla sfida. Ma ci proviamo, tutto qui. D’altra parte non abbiamo alternative. Arpia vive solo in questa eterna tensione vitale.
Per quasi vent'anni Arpia ha contato solo sul 'sacro trio' Bonetti-Brait-Orazi; anche il nome stesso del vostro studio e quartier generale, Cenacolo Arpia, ha sempre solleticato in tutti noi fantasie circa una setta misteriosa, o almeno un circolo per adepti a numero rigorosamente chiuso... Avevamo già accennato che negli ultimi due dischi vi siete però avvalsi di collaborazioni esterne, e adesso la bravissima Paola Feraiorni è stata addirittura inserita nella line-up. Da quanto avevate notato l'eccellente voce della Feraiorni?
Sì, in effetti nel nome del nostro studio aleggia un po’ troppo mistero. Ma in realtà è legato al fatto che di cenacolo a tutti gli effetti si trattava, in un primo momento. All’entrata una piccola cucina ci assicurava qualche pasto frugale tra una sessione di prove e l’altra. Ma alla fine la musica ha prevalso conquistandone gli spazi già esigui.
Il trio di base Bonetti-Brait-Orazi rimane il nucleo di Arpia, ma gli innesti dell’ultimo periodo non sono certo marginali. Basta pensare a Paola e alla sua voce! La conosciamo da ormai venti anni circa. Non è quindi nuova al Cenacolo Arpia. E l’abbiamo stimata sin dalla prima volta in cui l’abbiamo ascoltata dal vivo, quando ancora faceva parte di un gruppo di amici e musicisti, gli Histirya. Io trovo la sua voce e le sue interpretazioni davvero straordinarie.
Avete attraversato un lungo periodo nella storia rock del nostro paese, partendo dalla fase in cui il digitale era ancora poco diffuso e si facevano demo su cassetta, fino all'epoca attuale dominata, forse irreversibilmente, da Internet. Sempre, tuttavia, avete inteso mantenere il controllo totale su quanto incidevate. Com'è che, per l'ultimo CD, avete optato per la Musea?
Il nostro amico Richard Tedeschi, che è anche il nostro manager e vive in Inghilterra, ha avuto contatti con la casa discografica francese che si è dimostrata subito molto interessata al nostro progetto. Così in pochissimo tempo abbiamo concluso e firmato il contratto. Anche perché ci hanno dato la possibilità di gestire in completa libertà la registrazione e la produzione artistica del cd.
Vi ho visti dal vivo nel lontano 1995, presso l'ormai defunto Centro Sociale "Indiano" a Firenze. A parte il vostro malessere e imbarazzo per le condizioni non certo ottimali con cui doveste eseguire quel concerto, ricordo comunque una band molto quadrata, musicalmente e anche concettualmente. Qui a Firenze, purtroppo, per l'underground le cose non sono certo migliorate, anzi: i gruppi emergenti denunciano la cronica mancanza di locali e situazioni opportune. Dalle vostre news, invece, noto che, almeno per quanto riguarda l'hinterland romano, ora siete riusciti a procurarvi diverse occasioni per proporvi live. Può darsi che la semplificazione logistica dovuta all'assetto unplugged faciliti un po' le cose, dischiudendo anche spazi inusuali come gallerie d'arte e affini? O forse Roma offre comunque più opportunità rispetto a Firenze?
“No, credo che Roma e Firenze denuncino scarsità di locali come d’altronde la maggior parte delle città italiane. Diciamo che, come tu suggerisci, il modo stesso di proporre "Racconto d’inverno" ha facilitato la possibilità di esibirsi in situazioni e contesti altrimenti impraticabili. Ad esempio abbiamo esordito in un’Abbazia cistercense nei pressi di Roma per la Settimana della Cultura organizzata dal Ministero delle Belle Arti. Dubito che avremmo potuto farlo con un concerto elettrico come "Terramare"!
Sovente, e in sostanza a ragione, c'è chi si lamenta che oggigiorno non si legge più, e anche la fruizione della musica è profondamente mutata, specie fra le nuove generazioni: in giro vedi solo lettori mp3 e cuffiette, e lo stesso oggetto-CD pare destinato a una veloce pensione. Voi, per contro, proponete un libro e un disco. Cosa vi fa perseverare nella vostra... meravigliosa follia anticommerciale? Sei ottimista o pessimista riguardo al futuro?
Sono profondamente pessimista. Il che equivale a dire che sono un inguaribile ottimista. Altrimenti non scriverei né comporrei musica. Quando tutto va a picco e non c’è più speranza, proprio quando le possibilità di rinascere sono ridotte al lumicino, rimane sempre qualcosa a sorprenderci, conficcata dentro di noi. Una risorsa inaspettata che ci toglie d’impaccio, che ci dà una spinta: e allora andiamo ancora avanti; magari si tratta ancora solo di pochi passi, ma testardamente si avanza, contro tutto e contro tutti.
Concludo ringraziandoti per la disponibilità, per la cura e l’amore che riversi in modo disinteressato nei confronti della musica e dell’attività artistica in generale.
Un grazie va anche ad Arlequins che si dimostra sempre come uno spazio libero e attento alle realtà musicali più vive.
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Intervista a Rosa Selvaggia
Incontriamo la band storica degli Arpia, dediti da 25 anni a suono dark progressive, il cui ultimo lavoro è ispirato dal libro di Leonardo Bonetti (componente della band) "Racconto d'Inverno".
intervista by Nikita
Parlateci del vostro nuovo CD e del libro "Racconto d'inverno"
All’inizio l’intenzione era di musicare un libro di Tommaso Landolfi: Racconto d’autunno. Ho lavorato a lungo, due o tre mesi, ma senza risultato. A un certo punto ho capito che non sarei mai riuscito e che avrei dovuto riscrivere il romanzo proprio a partire dal testo landolfiano. Così è nata l’idea del racconto e della composizione musicale che mi ha preso la mano. Devo dire che il lavoro è andato avanti pendolarmente, così che la scrittura e la composizione hanno proceduto di pari passo. Per questo credo che leggendo il libro o ascoltando il disco si percepisca che musica e parola in Racconto d’inverno sono strettamente legate.
Leonardo cosa ti ha ispirato a scrivere il libro? Hai in mente in futuro di scrivere altri racconti?
Già ti dicevo della volontà di ripartire da Tommaso Landolfi. Questo scrittore morto ormai una trentina d’anni fa, riconosciuto dalla critica ma poco letto, credo sia andato più a fondo di altri su alcune questioni a me care che riguardano i rapporti tra letteratura e vita, insomma tra quello che significa fare arte senza tentazioni strumentali. La sua ricerca linguistica e la sua capacità di superare la retorica tipica dell’essere scrittore, poi, mi hanno sempre molto colpito. Landolfi faceva letteratura (soprattutto nei diari dell’ultima fase) distruggendo in sé ogni posa. Questa verità ha rappresentato una sirena così irresistibile da permettermi di avviare una ricerca personale che saltasse a più pari le tendenze della letteratura contemporanea. Ho la sensazione infatti che siamo giunti ad una concentrazione di rumore tanto elevata da aver bisogno di ripartire da un grado zero. Ecco, Lenadolfi per me ha rappresentato il punto di partenza, il grado zero della letteratura, il punto più avanzato della ricerca letteraria del secolo scorso da cui si doveva necessariamente ripartire per tentare di percorrere una strada che puntasse, più che al nuovo, all’essenziale e, quindi, alla poesia. Da questo punto di vista la polemica contro la novità èuno de temi fondamentali di cui mi sono via via reso più consapevole negli ultimi anni. perché la ricerca della novità a tutti i costi rappresenta lo strumento tipico con cui l’industria culturale e il mercato applicato all’arte hanno operato uno svuotamento costante e ormai pressoché totale della categoria novecentesca dell’espressivo e del creativo.
Non credere che questo discorso sia esclusivamente legato alla letteratura. La musica, infatti, ha subito (forse in modo ancora più violento) un attacco simile.
Musicalmente Racconto d’inverno imbocca, infatti, le stesse strade del romanzo: un ritorno al grado zero e una polemica nei confronti della ricerca della novità fine a se stessa (ritorno alle sonorità acustiche e ad armonizzazioni classiche).
Gli Arpia hanno festeggiato i 25 anni d’attività, ma avete prodotto solo tre CD, tre tape e un 7". Quali sono state le difficoltà‡ incontrate in questi anni? Quale è stata la apinta che vi ha fatto andare avanti?
La spinta è rappresentata dall’amore per la musica ma, ancor più, dalla necessità di esprimere un mondo, una dimensione critica della realtà, una carica eversiva nei confronti del reale che non ci basta e, soprattutto, non ci soccorre.
Qual’è il segreto di suonare insieme così tanto, senza mai cambiare line-up? Quale motivo poi vi ha spinto nel 2006 ad inserire una componente femminile (Paola Feraioni)?
Il segreto credo sia semplicemente quello di vivere la musica e l’arte come un’esperienza di libertà, antiutilitaristica, irriducibile, mai finalizzata a null’altro che all’espressione. Non è un merito, lo ripeto, è una necessità. Senza la musica e l’arte saremmo senza equilibrio né baricentro. Suonare fa bene alla salute, innanzi tutto, ma solo se si fa come una scelta di vita e non come una professione.
Come si svolgono i vostri concerti, e cosa è cambiato nelle perfomances live rispetto agli inizi?
Abbiamo avuto varie fasi. Ora siamo tornati a forme più “teatrali”, sulla falsariga degli inizi. Anche se la struttura dello spettacolo in Racconto d’inverno ha delle varianti non secondarie. Più che altro, infatti, stiamo sperimentando un’architettura che prevede la compresenza di concerto e lettura, più che di recitazione vera e propria.
A volte, comunque, utilizziamo la forma del concerto classico, soprattutto quando dobbiamo suonare nei locali.
Tra un lavoro e l'altro degli Arpia passano molti anni, in questo lasso di tempo, siete attivi nel produrre nuove canzoni, o ci sono stop molto lunghi in cui vi distaccate dal progetto?
Ci possono essere pause, ma devo dire che abbiamo sempre continuato a suonare. Tra Liberazione che è del 95 e Terramare che è del 2006 sono passati 11 anni, ma nel frattempo noi abbiamo fatto musica, un sacco di musica. Non è stata pubblicata ma non è detto che questo non avvenga nel futuro. Diciamo che stavamo sperimentando forme nuove che non avevano la maturità necessaria per poter uscire su disco. Ma nello stesso tempo abbiamo suonato molto dal vivo.
Come è avvenuto il contatto con la label francese che vi ha prodotto l'album?
Il nostro manager, Richard Tedeschi, ha ottenuto un riscontro positivo al nostro lavoro e così è arrivata l’occasione di poter collaborare con quella che è una tra le più importanti etichette europee di prog.
Se doveste giudicare con una frase ogni vostro lavoro (compreso i tape e il 7"), come li descrivereste?
De lusioni: concettuale e filosofico
Resurrezione e Metamorfosi: (rispondo con il titolo dello spettacolo ad esso associato al tempo, eravamo nel 1988!) “rito musicale per una mancata carnevalizzazione della morte”
Idolo e Crine: il mito
Liberazione: una presa d’atto nella storia
Terramare: l’esperienza erotica del mondo
Racconto d’inverno: il fallimento dell’essere e il primo passo per esistere
Non capisco come un buon gruppo come il vostro, possa essere così poco conosciuto in Italia, altresì vengono, nella scena underground, molto spesso sponsorizzati da label e magazines band anonime e senza pathos. Secondo voi da cosa dipende?
Il motivo principale è che prendiamo la musica come un’arte e non come una branca dello spettacolo sottoposta al mercato. I nostri sono lavori impegnativi, complessi, difficili insomma. Il sistema mediatico ha ormai instillato in ognuno di noi l’idea che ciò che è difficile e impegnativo è antiquato e sorpassato. Che si debba ricercare la facilità e la leggerezza in ogni esperienza. Bene, se dovessi definire Arpia con una frase, cosÏ come ho fatto per i nostri dischi, forse sarei ingiusto ed userei un’espressione che non rende merito al nostro lavoro, ma per togliermi un sassolino dalla scarpa mi piacerebbe dire: “guerra alla leggerezza”. Sì, perché credo che dietro la ricerca spasmodica della leggerezza e della freschezza come categorie dell’estetico massimamente positive, si nasconda solo il tentativo di vendere un prodotto che possa poi esaurirsi in poco tempo. Il meccanismo del consumo è infatti per me al centro di tutte le nuove tendenze dell’arte. Arpia combatte il meccanismo del consumo nell’arte come nella vita. Perché è inessenziale, impoetico.
Contatto diretto con i nostri lettori. Dite tutto quello che v’interessa di far sapere ai nostri lettori sugli Arpia e sul nuovo disco
Dico solo questo: spero che possiate ascoltare il nostro Racconto d’inverno, che possiate leggerlo e che, soprattutto, possiate riuscire a combattere dentro e intorno a voi la tendenza alla rinuncia, all’indifferenza e al cinismo che ci vengono imposti come un modello culturale ma che non vivono mai dentro di noi come un impulso naturale.
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Intervista a EUTK
Intervista a cura di Marco Aimasso
Qualche tempo fa ho cercato di raccontarvi come Rock e Letteratura si siano uniti, in modo assai raro e prezioso, nelle spire vorticose di “Racconto d’inverno”, al tempo stesso un romanzo che regala immaginifici “suoni” alla parola scritta e un disco che impregna il suo suggestivo contenuto musicale con il fascino straordinario della poesia e della narrazione “gotica”.
Un viaggio seducente ed emozionante attraverso i paesaggi cangianti dell’anima e dell’immaginazione che ha come catalizzatore primario l’interlocutore di quest’attesissima (almeno dal sottoscritto!) intervista, Leonardo Bonetti, il quale è sia illuminato autore di uno dei libri più avvincenti dell’anno e sia ispiratore e artefice appassionato di un Cd che, ovviamente anche per merito dell’imprescindibile contributo degli altri Arpia, continua a riservarmi momenti di pura esaltazione uditiva ed emotiva.
I suoi pensieri e i concetti che troverete espressi qui di seguito, uniti alla storia stessa dell’imprevedibile band capitolina, non fanno che confermare ulteriormente la natura unica e carismatica di un genere d’artisti che difficilmente arriva a conquistare le “grandi copertine” (purtroppo!), ma che, alimentato da un’enorme personalità, cultura e da smisurati impulsi creativi, prosegue nel suo percorso di vita e di composizione con istintività, vitalità intellettuale e con il temperamento di chi crede ancora nel potere evocativo ed espressivo “dell’arte”, intesa come valore “globale”, lontano da cristallizzazioni, snobismi e dalla caducità dei trend dominanti.
Innanzi tutto, grandissimi complimenti per “Racconto d’inverno”, un lavoro per il quale bisognerebbe spendere mille parole d’apprezzamento, alla fine sintetizzabili in una sola … Imperdibile.
Iniziamo con una piccola provocazione … In “Terramare” avete trattato di Eros e riscoperto i poeti italiani del Duecento e oggi, incuranti delle complicazioni dovute alla “crisi globale”, ritornate addirittura con una sorta d’opera “multimediale”, per quanto splendidamente attrezzata ad una fruizione singola … confermate che le cose “semplici” non Vi piacciono proprio, eh …
Grazie per i complimenti, innanzi tutto… non erano scontati e fanno sempre enorme piacere.
Per ciò che riguarda la tua provocazione la accetto volentieri. Credo, infatti, che sia importante sfidare se stessi fino in fondo per cercare di dare risposta alle esigenze più profonde: a dire il vero non vogliamo mai “fare le cose difficili”, sennonché è la difficoltà stessa della realtà a chiamarci a queste prove. E in questo, ti assicuro, non c’è alcun calcolo, visto che all’inizio l’idea di ciò che avremmo fatto era completamente diversa.
Detto ciò, direi di passare a chiederti quali sono le fonti d’ispirazione di quest’opera, da dove nasce l’esigenza di cimentarti anche tramite la “tradizionale” parola scritta, se hai avuto da subito un’idea chiara della storia complessiva e ancora se la concezione di questa “compenetrazione” tra musica e romanzo si è materializzata immediatamente o si è invece trattato dell’effetto di un procedimento “in progress” durante la stesura dell’una o dell’altro …
All’inizio, lo ripeto, non c’era alcuna intenzione di scrivere un libro. L’idea iniziale, infatti, era quella di musicare un romanzo di uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano: mi riferisco al “Racconto d’autunno” di Tommaso Landolfi. Ho provato leggendo e rileggendo il testo per tre mesi. Senza risultati apprezzabili. A quel punto ho capito che avrei dovuto riscrivere io la storia, scrivere cioè a partire da quel libro, dal Racconto landolfiano, voglio dire. Così ho sviluppato la vicenda dall’incipit per poi proseguire per la mia strada, dando spazio libero alla mia immaginazione. E nel far questo sono passato pendolarmente dall’una all’altra forma di linguaggio: dalla musica alla parola e viceversa. Così che non so distinguere bene tra i due oggetti: libro e cd.
“Racconto d’inverno” conquista con le sue peculiarità vicine alla letteratura gotica, con richiami a quel “sublime del terrore” che svela angosce e inquietudini filosofiche e spirituali da sempre presenti nell’animo umano. Si tratta di un approccio narrativo piuttosto “familiare” alla storia degli Arpia, ma vorrei comunque che ci spiegassi i motivi di questa scelta espressiva.
Questa scelta era dettata da un’esigenza profonda, dalla consapevolezza che quei territori erano necessari per poter partire da zero, per fare piazza pulita della tendenza all’omologazione che mi sembra di cogliere nella produzione letteraria contemporanea. Insomma bisognava rivolgersi al romanzesco del fantastico così come aveva fatto Landolfi alla metà del Novecento, e sostanzialmente perché zona fondamentalmente inesplorata dalla tradizione letteraria italiana. D’altronde, come hai detto giustamente, Arpia ha da sempre provato a cimentarsi con questo tipo di letteratura. Penso ad esempio al primo demo, “de lusioni”, dove adattammo musicalmente “La mascherata della Morte Rossa” di Edgar Allan Poe. Credo, infatti, che il fantastico in letteratura sia terreno propizio alla ricerca, sia dal punto di vista filosofico che da quello stilistico. Inoltre il contesto estremo del paesaggio selvaggio d’alta montagna durante l’inverno, e la guerra civile sullo sfondo, sono elementi utili a togliere qualsiasi appiglio al lettore, per imporgli un regime terribile e spietato che non gli permetta difese e lo costringa a spogliarsi di ogni sovrastruttura. “Racconto d’inverno”, da questo punto di vista, credo sia un romanzo che provoca reazioni e non indifferenza.
Pur avendo sempre apprezzato il tuo stile di composizione, ho trovato veramente sorprendente la tecnica di scrittura adottata nel romanzo, ricca di descrizioni minuziose e al tempo stesso agili ed emozionanti. Le raffigurazioni della natura, degli stati d’animo e della casa sono incredibilmente dettagliate e suggestive, quasi le avessi “vissute” in prima persona … A questo punto sono curioso di conoscere i passi fondamentali del tuo apprendistato letterario e qual è il “segreto” di un “debutto” così riuscito anche sotto il profilo stilistico…
Non saprei bene cosa dirti. Mi sono cibato di letteratura e poesia sin dall’adolescenza, ho studiato e mi sono cimentato, da sempre. Musica e parola per me sono elementi plasmabili di una materia che si rinnova continuamente, per cui non ci sono aspetti propedeutici che possano spiegare. Scrivo essenzialmente proprio come facevo trent’anni fa, con in più trent’anni di letture. E ovviamente sono felice del tuo così sincero e totale apprezzamento. Questo, te lo assicuro, per me vale più di ogni altra cosa.
Ed arriviamo ai temi pregnanti dell’opera, almeno dal mio punto di vista … una fuga dalla realtà che non può concretizzarsi, una guerra civile insensata e talmente devastante negli effetti da voler distruggere ogni legame con il mondo che non ha saputo evitarla, con i tre enigmatici protagonisti senza nome che ci conducono in questa profonda indagine interiore e spirituale tra concetti quali amore, soprannaturale, rassegnazione, carnalità, eternità e morte, e ancora il dibattersi dell’io narrante tra volontà e fiducia sullo sfondo di un’ambientazione lacerata ed enigmatica come lo spirito stesso dei personaggi che animano la vicenda… Vorrei che ci dicessi qualcosa su quest’affascinante viaggio nella parola, nella poesia e nella coscienza …
Sì, dici bene, la volontà e la fiducia sono due aspetti polari dell’opera. Lo sbandato, infatti, braccato da bande d’armati che imperversano nella zona, vorrebbe passare il confine e quando s’imbatte, dopo una discesa vorticosa tra gole selvagge, nell’abitatore di una casa nascosta da un’antica faggeta, ha l’occasione per poter risolvere questa dicotomia. Il bambino-guida, infatti (così lo chiama durante il corso del suo viaggio) gli suggerisce a più riprese che l’unico modo per passare l’altopiano e la catena dei monti che lo separa dal paese più vicino è nell’affidarsi completamente alla natura profonda delle cose e di se stessi. Ma lo sbandato è uomo che rifiuta ogni abbandono, se non in alcuni frangenti di debolezza; non vuole affrontare fino in fondo la sfida necessaria alla propria evoluzione interiore.
Il fallimento del viaggio costringerà quindi il protagonista e la sua guida a ritornare nella casa. Lì egli avrà una seconda possibilità, offerta dalla sorella scomparsa della guida. Ma di più non posso dire.
Come ho scritto in sede di recensione, il Cd non è altro che una trionfante trascrizione sonora delle peculiarità immaginifiche e delle profondità emozionali, poetiche e intellettuali così copiosamente riscontrate nella pagina scritta, per la quale avete scelto un’ambientazione prettamente acustica. Come avete concepito la componente musicale e come avete ottenuto un risultato così organico, in cui, come dice il materiale promozionale “[…] la musica non viene dopo la parola né viceversa”? Quali sono stati i passaggi più critici nell’allestimento dell’album?
Il momento più difficile è stato quello iniziale. Infatti la scelta acustica ci ha costretti ad una profonda rielaborazione degli schemi cui eravamo pervenuti dopo più di vent’anni di musica. L’uso stesso della sezione ritmica è notevolmente cambiato; gli strumenti suonati hanno subito radicali cambiamenti, tanto che oggi dal vivo suono la chitarra al posto del basso e in alcuni casi Aldo usa sessioni percussive al posto del set più tradizionale. Fabio è stato costretto ad una revisione nell’uso dei fraseggi e la cantante ha toccato corde e tonalità finora inesplorate. Insomma questo “Racconto d’inverno” ha messo in crisi prima di tutto noi stessi.
Ma i risultati ci ripagano di ogni sforzo. Senza contare che questo percorso ha portato in noi un’evoluzione musicale facilmente riscontrabile all’ascolto. Eravamo anche noi degli “sbandati” chiamati ad una prova di trasformazione; trasformazione, oltretutto, nella continuità. Arpia è Arpia. Non cambia nella sua sostanza profonda. Non basta suonare un disco acustico per fare folk-rock. La matrice più inquietante e visionaria della nostra vena resta inalterata, anzi addirittura potenziata, se possibile.
Nell’epilogo della mia recensione ho scelto di utilizzare la definizione “rock d’autore”. Ti piace e ti riconosci in tale forma di “catalogazione”?
Non riesco mai ad essere soddisfatto di alcuna catalogazione. Non è un difetto di chi la opera, ma sostanzialmente delle formule stesse poste di fronte alla musica o alla poesia. Questa, in ogni caso, ha il merito di utilizzare due termini assolutamente adeguati a ciò che facciamo.
“Racconto d’inverno” è il tuo esordio nel mondo dell’editoria. Qual è la tua valutazione su questo “universo”, anche nei confronti di quello discografico, che viceversa frequenti da parecchi anni? Insomma, è stato più facile trovare interlocutori adeguati per il libro o per il disco? E ancora, come siete arrivati al contratto con la prestigiosa Musea?
L’editoria ha parecchi problemi ma sicuramente meno gravi e profondi del mondo discografico. Sicuramente non è facile pubblicare per un editore prestigioso come Marietti, ma credo che il fatto che ci siamo dovuti rivolgere all’estero per il CD fa capire come in Italia sul versante discografico le cose non siano proprio idilliache.
Come scrittore sono un esordiente e la Marietti, nella persona di Giovanni Ungarelli, ha avuto il merito di andare alla sostanza del testo senza ulteriori condizionamenti. Di questo non posso che dargliene atto pubblicamente.
Alla Musea siamo arrivati grazie al nostro manager Richard Tedeschi che ha mandato il materiale e ha avuto una risposta positiva al primo ascolto.
Paola Feraiorni, ancora una volta straordinaria peraltro, non è più un’ospite come su “Terramare”, ma nel nuovo Cd è accreditata come un membro effettivo degli Arpia, un gruppo storicamente “immutabile” nella line-up fondamentale … un piccolo “evento” che merita, credo, un breve commento …
Paola Feraiorni è la voce che completa Arpia. Con “Racconto d’inverno” questa fusione è avvenuta in modo radicale e profondo. Le sue capacità vocali sono in questo disco pura espressione e non rimangono mai episodi slegati. La sua non è mai tecnica ma una sottile e vibrante sensibilità vocale.
Anche in “Racconto d’inverno” Vi siete avvalsi del contributo estetico del pittore Ettore Frani … Cosa ci puoi dire su questa proficua collaborazione?
Con Ettore ci siamo scoperti sin da subito, cinque anni ormai, e la sintonia profonda nella più completa autonomia ci ha guidato in tutte le nostre collaborazioni. Il rispetto che ci lega è reciproco e non lascia spazio ad ambiguità. La copertina e il libretto sono in questo caso un vero gioiello, con i nostri volti all’interno impressi con una tecnica molto particolare.
So che siete stati impegnati in alcune rappresentazioni “live” di “Racconto d’inverno”, tra l’altro sfruttando ambientazioni “inusuali” e adeguatamente suggestive (come la Chiesa di S. Maria di Falleri e il Teatro Agorà). Continuerete seguendo questo percorso?
Sì, credo che continueremo a tentare strade alternative a quelle tradizionali. Ma anche se suonare in un’abbazia è stato emozionante, questo non c’impedirà di tornare molto presto anche sul palco di qualche locale.
A questo punto, per completare il “quadro” complessivo delle “arti”, non mancherebbe che lo “sconfinamento” nel campo squisitamente cinematografico. Dopo l’esperienza passata con la video artista Maria Pizzi, e tenuti in considerazione i richiami allo “Stalker” di Andrej Tarkovskij, avete qualcosa in serbo anche da questo punto di vista?
Questo lo prendo soprattutto come un augurio. Sarebbe estremamente interessante tentare una qualche collaborazione nel campo cinematografico, ma forse ancora le cose non sono abbastanza mature. Speriamo che nei prossimi mesi possa venire qualche novità anche da questo versante.
Forse è un po’ prematuro parlarne, ma immagino che non sarà affatto facile dare un degno seguito ad un’opera così impegnativa e affascinante come “Racconto d’inverno”, che rischia di diventare un precedente davvero “oneroso” per la Vs. parabola artistica. Avete mai pensato ai “rischi” insiti in una pubblicazione di questa portata?
È vero, non sarà facile dopo “Racconto d’inverno”, ma non credo che si possa prevedere esattamente il percorso futuro. Fatto sta che molta musica abbiamo già in cantiere, ed anche molti progetti. Non tutti purtroppo possono vedere la luce, ma l’importante è proseguire senza limitazioni e condizionamenti. Le cose, credo, verranno da sole e tutto sarà così ancora più stimolante.
Etichetta francese, management con sede a Londra, arte italiana … Gli Arpia sono diventati uno dei pochi esempi di feconda collaborazione europea?
Credo sia un caso, anche se il caso forse non esiste se non è un po’ aiutato. D’altronde a volte si tratta anche di necessità, come per la circostanza della pubblicazione con la Musea. Fatto sta che siamo un gruppo profondamente italiano, radicato senza tentennamenti nella nostra cultura e nella nostra lingua. E proprio per questo, forse, il legame con la cultura europea è inevitabilmente molto forte.
Nella precedente intervista avevi accennato ad una riedizione dei Vs. vecchi lavori. Un progetto che si è concretizzato?
Purtroppo è uno di quei progetti che ancora non hanno visto la luce, ma a cui siamo molto legati. Speriamo veramente di avere in futuro il tempo e gli strumenti necessari per poter pubblicare soprattutto una nuova versione di “Resurrezione e Metamorfosi”, demo cui siamo profondamente affezionati.
Visti gli eccellenti risultati, continuerai la tua attività di scrittore, magari anche “solo” in parallelo a quella di musicista?
Sì. Ho già altri testi a cui sto lavorando proprio in questo momento. Spero che nei prossimi anni possano essere pubblicati e avere il riscontro positivo che sta avendo “Racconto d’inverno”.
L’intervista, per quanto mi riguarda, è finita. Nel ringraziarti per tutto, disponibilità compresa, e nel salutare te, pregandoti di estendere il saluto anche agli altri componenti degli Arpia, non mi resta che lasciarti la possibilità di sfruttare quest’ultimo spazio come meglio credi …
Innanzi tutto voglio ringraziarti per la sensibilità e l’apertura che hai dimostrato nei confronti di questo nostro impegnativo ed ambizioso lavoro. Non è facile trovare giornalisti così preparati e attenti alle novità più estranee alle mode del momento.
Infine un saluto caloroso a tutti i lettori di EUTK sperando che vogliano farci dono della loro attenzione leggendo e ascoltando “Racconto d’inverno”.
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Intervista a Metalinside
Intervista a cura di Mungi
Dopo la recensione dell'ottimo e profondo “Racconto D'inverno”, abbiamo avuto l'onore e il piacere di raggiungere la mente che si cela dietro al progetto Arpia, scambiando una chiacchierata profonda e decisamente interessante. Buona lettura
Ciao Leonardo, sono Andrea da Metalinside, ed è per me un grandissimo piacere ed onore potere raggiungerti per parlare del vostro (e del tuo) ultimo lavoro con il Progetto Arpia.
Le cose da dire sarebbero davvero molte, ma partiamo dall'inizio: la vostra storia professionale è molto lunga, e affonda le proprie radici parecchi anni fa; cosa ne dici di cominciare con un sunto della vita del progetto Arpia per i nostri lettori che non vi conoscono?
"È un vero piacere anche per me poter parlare di musica e di Arpia approfittando dello spazio che ci concedi qui su Metalinside.
Riassumere la storia di Arpia non è facile. Credo che da questo punto di vista soccorrano meglio le biografie, visti i venticinque anni che abbiamo ormai alle spalle. Ci siamo formati infatti nel lontano 1984, ed a pensarci è una cosa che ci emoziona profondamente.
D’altronde Arpia è la storia di un nucleo storico, composto da me, Fabio Brait alla chitarra e Aldo Orazi alla batteria. Ma anche un progetto che si espande in continuazione e ha trovato sul proprio cammino altre personalità dal grande profilo creativo. Parlo innanzi tutto della cantante Paola Feraiorni che ormai da anni fa parte del gruppo in pianta stabile. Ma anche di altri musicisti che ci sono vicini e hanno collaborato o collaborano attivamente con noi. Soprattutto Tonino De Sisinno alle percussioni su Terramare e Marco Marchiori al basso nei live di Racconto d’inverno."
Dopo una prima introduzione veniamo subito al punto focale della nostra intervista: “Racconto d'inverno”. Questo nuovo lavoro nasce come un progetto parallelo tra letteratura e musica, in quanto composto da un disco e da un libro. Quanto è stato difficile convertire in musica la letteratura e viceversa?
"Racconto d’inverno nasce da un’esigenza profonda per cui non saprei dirti quanto è stato difficile. A ripensarci è stato tutto molto facile, a dir la verità. Perché è nato in modo spontaneo. Almeno dal momento in cui ho capito che il progetto iniziale doveva essere modificato. Infatti all’inizio l’intento era di musicare un libro di un autore tra i più grandi del Novecento italiano: Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi. Una volta capito (e lì è stato veramente “difficile”) che non ci sarei riuscito, è come se mi si fosse aperto un mondo. Dovevo riscrivere io, a partire dall’autunno landolfiano, un racconto, un romanzo addirittura. Così è partita quest’avventura. Ma la composizione e la scrittura sono andate avanti pendolarmente. Non ho prima scritto e poi composto. Passavo dall’una all’altra delle due “scritture” secondo un ritmo che non saprei decifrare."
Sentiamo spesso (e giustamente) parlare di musica e letteratura come due stati dell'arte che viaggiano di pari passo, e, come avete dimostrato, capaci di intrecciarsi alla perfezione; dove finiscono però i limiti della letteratura e cominciano quelli della musica, e viceversa? Mi spiego meglio, ci sono passaggi, emozioni, o sentimenti, che una delle due forme riesce ad esprimere meglio dell'altra?
"La musica è certamente più diretta e universale. Ha una grammatica comprensibile più o meno a tutte le latitudini. Un linguaggio pre-razionale, emotivo e, in certi casi, sentimentale. La parola si innesta su questo tronco. La parola è musica, infatti. L’elemento significante assume un’importanza tutta particolare dal punto di vista melodico e ritmico. Non è un caso che sin dall’antichità la poesia fosse cantata, che i poeti usassero accompagnarsi con strumenti musicali. Ma la parola esprime anche l’anima razionale, il senso più che il significato. È una porta e al tempo stesso una chiave di interpretazione del mondo fatta dai sensi di cui è composta.
Insomma, non ce la faccio proprio a separarle, per me parola e musica sono la stessa materia, un corpo unico, inscindibile."
“Racconto d'inverno” è inoltre il tuo personale debutto in campo letterario, oltre che un nuovo tassello nella carriera degli Arpia; innanzitutto, ti faccio i migliori auguri per il tuo futuro da scrittore, augurandoti di raggiungere importanti traguardi; come hai vissuto il processo di scrittura del libro, essendo abituato invece a scrivere musica? I due processi di creazione sono simili o distinti?
"Grazie degli auguri di cui sento effettivamente il bisogno visto che sono all’esordio. Per quanto riguarda la scrittura di questo romanzo, come ti dicevo prima, non riesco a distinguere del tutto il momento musicale da quello letterario. È indubbio che scrivere non è comporre. Ma la mia scrittura è gia musicale, e la mia musica è già poetica. Si tratta di un sentimento profondo che unisce, che lega. Non saprei definire tali rapporti in modo diverso."
L'artwork del disco è decisamente freddo e malinconico, a voler confermare il senso di solitudine e di fuga spesso affrontato nel disco; quali sono i messaggi principali che vorresti trasmettere con “Racconto d'inverno”?
"L’artwork è opera di Ettore Frani, artista dalla sensibilità spiccata che è anche autore della copertina di Terramare. Il senso di solitudine e di fuga, di freddo e di smarrimento sono evidenti. Quando ho visto la sua opera mi sono perso definitivamente dentro Racconto d’inverno. Frani ha qualcosa di imponderabile che lo accompagna in ogni suo gesto pittorico. Parlarne è già un delitto. Bisogna semplicemente vivere le sue opere.
Per quanto riguarda invece l’altra questione, non credo di avere messaggi da trasmettere. Non credo che l’arte possa pretendere di trasmettere messaggi di alcun genere. L’espressione artistica supera tali forme retoriche e si attesta su un approfondimento di temi o dimensioni rappresentative. Da questo punto di vista in Racconto d’inverno rintraccio alcuni motivi fondamentali: la ricerca, la fuga, il fallimento, la salvezza. Su queste polarità si gioca il racconto, tentando due strade: quella della razionalità e quella della ricerca sensibile. Entrambe funzionano come motore della vicenda. Si assecondano, si combattono, si escludono. Ma alla fine, se proprio dovessi trovare un senso polemico o retorico al libro, direi che lo si può rintracciare in una critica a tutto campo contro il razionalismo dilagante che assedia il nostro mondo. L’illusione tecnocratica e psuedo scientifica che si traduce a livello sociale in un eccesso di valorizzazione delle “professionalità” e delle “specializzazioni”.
Racconto d’inverno ci dice che la vita non può essere ingabbiata in formule. Non può essere spiegata. Anzi che non c’è nulla da capire. L’unico modo in cui possiamo riconquistare la nostra autenticità è quello di “sentire con umiltà ed impegno”. Spogliandoci degli orgogli che puntano al dominio e al potere sulle cose. Se vogliamo sottomettere le cose falliamo miseramente. Le cose vanno “contattate”, “accolte”. Ebbene, Racconto d’inverno è la storia di un errore e di una trasfigurazione. La storia di un fallimento che riafferma la possibilità di tale contatto."
La creazione di un prodotto così lungo e complesso avrà sicuramente richiesto diverso tempo; quando è nata l'idea di creare questo “Racconto d'inverno”, e come si è poi sviluppata?
"Ci è voluto molto tempo, è vero. Due anni in tutto. Ma, come ti dicevo prima, l’idea era un’altra. All’inizio sarebbe dovuto uscire un Racconto d’autunno, adattamento musicale targato Arpia di un libro di Tommaso Landolfi. Dal fallimento di questo progetto è nato invece Racconto d’inverno libro e CD. Prima di farlo non lo avrei creduto possibile. Ma in corso d’opera mi è sembrato tutto così naturale…"
Un ruolo importante, nell'uscita di un prodotto così particolare, lo ha sempre l'etichetta di distribuzione, nel vostro caso la francese Musea Records, vero e proprio leader nel settore; è stato importante per voi il loro supporto? Qual è stata la loro reazione di fronte al vostro ultimo lavoro?
"Il supporto della Musea è fondamentale. Si tratta di una etichetta importante e che distribuisce praticamente in tutto il mondo. Credo siano soddisfatti di quanto abbiamo fatto e spero che Racconto d’inverno porti a risultati apprezzabili per entrambi."
In un mercato come quello di oggi, dove una grande fetta dell'utenza vive di download selvaggi che danno poca importanza a un lavoro particolare come quello del musicista, la vostra proposta si pone come strettamente elitaria, destinata a palati raffinatissimi e amanti sia della lettura che della musica; quanto è difficile conciliare i bisogni di questi due diversi tipi di utenza?
"Il fatto è che noi non consideriamo “utenza” coloro che si avvicinano alla nostra musica. Voglio dire che abbiamo una visione assolutamente aliena dal mercato. Insomma cerchiamo persone, non compratori. Che poi ci siano persone che “comprano” il nostro disco o il mio libro non ci scandalizza, naturalmente. Ma credo che l’acquisto debba essere sempre considerato come un mezzo, mai come un fine. Ciò che esiste, che è importante, è il rapporto con la fruizione artistica, con la creatività che si sviluppa in questa relazione tutta particolare. Se poi (come è successo con il precedente Terramare) migliaia di persone fanno download del disco, sinceramente non lo vedo come un problema. Il problema semmai è cercare di superare tale questione sviluppando il rapporto tra chi fa musica e chi l’ascolta nel senso della profondità piuttosto che in quello della quantità. Il download selvaggio è una malattia che ci mangia dentro. Si scarica musica per dominarla, per possederla. Ma poi non la si ascolta. E la quantità di musica che possiamo “avere” è fuori da ogni contenimento. Così che avere migliaia di dischi equivale a non ascoltarne nessuno. Intendo non ascoltarne nessuno dall’inizio alla fine con l’intensità necessaria. Il download favorisce la frammentazione. Per questo è sociologicamente deleterio. Ma fuori da questo schema non è assolutamente da demonizzare. Se facilita un rapporto vero con l’opera artistica diviene immediatamente positivo. Il problema è che non mi sembra che questo avvenga. Basta osservare l’utilizzo indiscriminato e volto allo smembramento (molti ragazzi ascoltano “brani” staccati senza sapere di chi sono e qual è il loro titolo). Allora tutto ciò assomiglia sempre di più ad una vera e propria deriva."
Il progetto Arpia è però anche un gruppo di rock progressivo; quanto è difficile la proposizione dal vivo di un lavoro complesso come “Racconto d'inverno”?
"Dal vivo ormai stiamo sperimentando diverse versioni: dall’utilizzo di percussioni, all’intervento di attori che leggono/recitano parti del libro intervallandosi alla musica. I contesti in cui suoniamo sono i più disparati: teatri storici, abbazie, locali, biblioteche, piazze. Tutto ciò è veramente straordinario e stimolante."
Avete in programma qualche data per promuovere il vostro nuovo lavoro?
"Abbiamo suonato molto tra marzo e la fine di luglio. Ultimamente alla notte bianca di Arcevia in provincia di Ancona, e al Funnel di Roma. Ad agosto suoneremo a Pico Farnese e a Campobasso. Poi ci riposeremo per riprendere a settembre con nuove date."
Quale sarà il prossimo passo nell'evoluzione del progetto Arpia, e quali sono i vostri programmi per il futuro?
"Abbiamo parecchie idee che sono allo stato di abbozzo, un’altra almeno invece già determinata e in gran parte sviluppata. Ma non sappiamo ancora cosa porteremo a termine."
Molto bene, Leonardo, siamo infine giunti alla conclusione della nostra intervista. Vorrei sentitamente ringraziarti di avermi permesso di godere a pieno del grande lavoro e della grande passione che si celano dietro a questo “Racconto d'inverno”. Hai la possibilità di chiudere l'intervista come meglio preferisci.
"Sono io a ringraziare te e Metalinside; è stata un’ottima occasione per parlare di Racconto d’inverno. Un saluto naturalmente va anche ai lettori. Spero vivamente di incontrarli in uno dei nostri prossimi concerti-letture."
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Intervista a Tempi Duri
a cura di : Stefano Bonelli
Eccoci qui con l’opportunità di fare alcune domande al nostro Leonardo Bonetti fresco autore di Racconto D’inverno.
Bene Ciao Leonardo intanto complimenti per questa tua nuova fatica discografico letteraria.
Grazie dei complimenti. Spero che l’impresa che abbiamo tentato con la scrittura e la composizione possa avere un buon riscontro di pubblico e di critica.
Come mai ti sei voluto cimentare in quest’operazione certamente molto impegnativa cosa ti ha spinto a realizzarla ?
Non saprei rispondere a questa domanda, perché di solito quando scrivo non riesco mai a programmare nulla. Ciò che avviene dentro di me ha il sopravvento su qualsiasi altra cosa. Anzi, spesso l’intenzione va in direzione esattamente opposta a quello che poi concretamente si esprime artisticamente.
Da cosa hai avuto l’ispirazione ?
Diciamo che all’inizio avrei voluto semplicemente comporre un adattamento musicale di un romanzo del ’47 dal titolo Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi. Landolfi è certamente uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, purtroppo non molto conosciuto al grande pubblico dei lettori. Ebbene dopo tre mesi di lavoro mi sono convinto che non ce l’avrei fatta, che avrei dovuto riscrivere io il racconto, che avrei dovuto cominciare da lì, proprio dall’incipit di Racconto d’autunno per poi sviluppare una storia originale, nuova.
Cosa è nato prima il libro o il cd ?
La genesi di Racconto d’inverno è singolare: non c’è un prima e un dopo. Romanzo e musica nascono insieme. Tanto che pendolarmente passavo dalla composizione alla scrittura quando ancora c’era solo un abbozzo della storia e gli accordi mi nascevano su piccole porzioni di testo e viceversa. Insomma un metodo di lavoro che non saprei spiegare perché fondamentalmente non c’è. Il metodo forse arriva in un secondo momento, quando bisogna sistemare tutti i materiali per renderli artisticamente organici.
È giusto affermare che in certo senso il cd è la colonna sonora del libro ?
No, direi proprio di no. Nel disco i tempi della narrazione vengono spostati, il flusso stesso della composizione ha ritmi profondamente diversi. Ad esempio la situazione finale del libro nel CD compare all’inizio, nella traccia intitolata Epilogo, sviluppata oltre tutto in modo diverso, costruendo dialghi che nel libro non esistono, ponendo quindi un cantiere altro, in cui le possibilità stesse dei personaggi vengono spinte in modo più coraggioso data la sostanza universale ed immediata del linguaggio musicale.
Leggendo il libro mi sono accorto che personaggi il soldato fuggitivo e la guida non hanno nome come mai ?
La storia vive in un tempo e in un luogo senza nome, così come i personaggi. Diciamo che Racconto d’inverno sviluppa nel sotto-testo una critica radicale ai “nomi” intesi come razionalizzazione forzata del reale. I nomi devono nascere spontaneamente e rappresentare la naturale espressione di una sostanza interiore, altrimenti sono dei meri orpelli utili solo ad ingannare gli altri e noi stessi. Oppure il sistema per prendere possesso del mondo: come se dando nome ad un oggetto ci si potesse illudere di dominarlo. Racconto d’inverno rinuncia quindi alle coordinate spazio-temporali a cui siamo abituati e precipita nella dimensione dello spazio e del tempo naturali: la montagna e l’inverno, due elementi della stagione della vita che potremmo definire estremi, e che sostanziano il carattere profondo dei tre personaggi senza nome.
La parte letteraria è sempre stata un parte presente nelle tua vita artistica oppure sei “alle prime armi”?
È vero, la letteratura è la sostanza stessa della mia ispirazione, ma sullo stesso piano della musica. Per me parola e suono sono un organismo inscindibile. La poesia è già cantata prima di essere scritta. Potremmo dire che sgorga come sequenza ritmica e melodica. Quando scrivo seguo semplicemente i suoni e gli accenti che mi vengono da dentro. Per poi correggerli, naturalmente. Lo ripeto, l’elemento razionale interviene solo in un secondo momento, quale sistemazione armonica, per continuare fino in fondo la metafora musicale.
Il tuo gruppo si è esibito sempre in posti particolari scevri da una scena metal (visto anche la vostra provenienza artistica) come quella romana è una tua scelta?
Negli anni ottanta non era così. La scena metal romana e gli Arpia sono nati praticamente insieme. Siamo sempre stati un po’ ai margini, ma nelle manifestazioni importanti eravamo sempre presenti. In fondo siamo del febbraio dell’84 e quello è stato un momento magico per il rock romano. Dopo qualche mese è nata Radio Rock con cui fino all’inizio degli anni 90 abbiamo organizzato delle belle esperienze dal vivo: ricordo la magnifica esperienza nel febbraio ’88 al Piper, e poi al Palladium etc.. Poi, mi sembra, molto si è andato rovinando e la parcellizzazione del panorama musicale metal-rock ha portato a fossilizzare schemi, oltre che a indirizzare tutti quelli che gravitavano nel mondo dei locali dal vivo a far nascere il fenomeno delle “cover band”, vera e propria spallata nei confronti del mondo underground che continuava a sperimentare in proprio. Su questo non è mai stata fatta chiarezza nell’arcipelago del rock romano ed io rivendico per Arpia una posizione radicale che non ricerca la polemica.
Comunque la nostra ricerca si è sempre indirizzata verso luoghi particolari, come i teatri, ad esempio. Nella metà degli anni ottanta si suonava ad esempio al Teatro della Basilica di San Paolo fuori le mura. Concerti metal con tutte le band romane coordinate da Radio Rock! Cosa oggi del tutto impensabile.
Ebbene, noi abbiamo sempre prediletto forme di contaminazione tra teatro, parola e musica e questo continuiamo a fare anche oggi. Il primo concerto ufficiale di Racconto d’inverno, ad esempio, lo abbiamo fatto all’interno di una abbazia cistercense in occasione della Settimana della Cultura, ed è stata un’esperienza indimenticabile…
Come siete arrivati ad incidere il vostro disco con la prestigiosa Musea?
Merito del nostro Manager, Richard Tedeschi, che collabora con noi da Brighton, in Inghilterra, il quale ha proposto Racconto d’inverno all’etichetta che ritenevamo più adatta a pubblicarlo. E credo non avessimo tutti i torti.(infatti) N.D.R.
Era solo per questo disco oppure avete un contratto per altri dischi?
Il contratto è solo per Racconto d’inverno, ma nel futuro potrebbero esserci altre collaborazioni. Me lo auguro, ovviamente.
Le vostre copertine sono state prese in maggior parte da quadri è stati così anche per questa copertina?
Sì. Anche questa copertina e l’intero libretto è opera, come d’altronde Terramare, di Ettore Frani, un artista dalle qualità sensibili che si sposano perfettamente, credo, con le tonalità introspettive, drammatiche, visionarie della musica di Arpia.
Quali sono i vostri progetti immediati ?
Abbiamo tanta musica nel cassetto. Tanti progetti. Intanto continueremo a portare nei teatri Racconto d’inverno con la collaborazione di un gruppo allargato e molto affiatato. Dal vivo infatti suoniamo con una formazione che – visto che nei live suono la chitarra – vede il contributo fondamentale di Marco Marchiori al basso, già ex DGM. Inoltre naturalmente ci sono Paola Feraiorni alla voce, Fabio Brait alla chitarra e Aldo Orazi alla batteria. Ma il progetto di Racconto d’inverno live è un vero e proprio spettacolo teatrale, che vede coinvolti anche gli attori Fabio Mastropietro, Mari Correa e Alessandro Di Somma per le parti recitate.
Per il futuro probabilmente ci saranno delle novità. Non posso essere più preciso perché è ancora troppo presto. Ma son quasi certo che il prossimo lavoro sarà qualcosa di completamente diverso da Racconto d’inverno.
Vuoi dare un saluto ai nostri lettori ?
Certamente. Oltre a salutare tutti i lettori di Tempi Duri sperando di incontrarli in uno dei nostri concerti-spettacolo, voglio ringraziarti per quanto vai facendo intorno alla scena musicale italiana. Il contributo tuo e di tutti quanti hanno a cuore l’espressione artistica e musicale libera dai vincoli del mercato è di importanza fondamentale.
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Intervista a Altremuse
a cura di Armando Polli
"Racconto d'inverno" è un disco, ma anche un romanzo. Come è nata l'idea di un progetto così ambizioso?
L.B. All’inizio, devo essere sincero, l’idea era quella di comporre una sorta di adattamento musicale di Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi. Ma dopo tre mesi di tentativi ho capito che non ci sarei riuscito. Che il testo landolfiano era sfuggente ed imprendibile e avrei dovuto riscriverlo. O meglio avrei dovuto scrivere un racconto a partire dall’incipit di Landolfi. Ma la cosa mi ha preso la mano, evidentemente. La composizione e la scrittura, comunque, sono germinate l’una dall’altra, con una pendolarità tra i due linguaggi che, credo, dovrebbe essere percepita sia all’ascolto che alla lettura.
Il disco ha un approccio essenzialmente acustico, e punta soprattutto sulle voci. Perchè questa scelta, che sembra molto lontana dallo stile di "Terramare"?
L.B. Non so se è stata veramente una scelta. Diciamo che mentre componevo appariva del tutto naturale l’utilizzo di strumenti acustici e voce. È Racconto d’inverno che ha chiamato queste sonorità. Anche se potrebbe essere stata un’esigenza legata all’evoluzione del gruppo, ad un bisogno di allargamento degli orizzonti compositivi.
La cantante Paola Feraiorni sembra ormai una colonna degli Arpia. Come è nata la vostra collaborazione?
L.B. «Paola, tu sei la mia voce». Così spesso le dico scherzando. E non voglio essere presuntuoso. È solo un’espressione per riaffermare che non sento alcuna alterità, anzi una totale compenetrazione tra Arpia e Paola Feraiorni. Per cercare di dire meglio, quando canta con Arpia, Paola perde il suo nome. Come d’altronde ognuno di noi. È la voce di Arpia. Tutto qua. Si tratta di qualcosa che non avviene per un qualche motivo definito. Succede. Dopo anni (ormai dieci) di serate passate a provare, a suonare e a parlare, Paola è divenuta parte integrante del gruppo. E ovviamente non è stato il risultato di una scelta sua o nostra. È stato semplicemente l’esito di un percorso naturale, fatto senza forzature.
L'impressione è che gli Arpia siano un gruppo dai confini molto elastici, capaci ogni volta di cambiare rotta. Non avete paura di disorientare il vostro pubblico?
L.B. Arpia non può fare che questo. Continuare ad esprimere un’esigenza senza direzione. Potremmo dire che la necessità di ricercare nuove strade non si esplicita mai in una forma precisa. È semplicemente un’energia che spinge, che muove. Per cui dobbiamo ubbidire a questa spinta, a volte contro voglia, devo essere sincero. Ogni volta che affrontiamo un nuovo lavoro c’è qualche resistenza, qualche opposizione. È perché dobbiamo rimettere in discussione qualcosa di acquisito. E non è mai facile. Soprattutto con Racconto d’inverno, che indubbiamente rappresenta un vero e proprio salto di qualità in questo senso. Per quanto riguarda invece la paura di spiazzare il nostro pubblico non possiamo temere nulla. Sappiamo che gli appassionati che ci seguono ormai da decenni sono pronti ad affrontare queste svolte. Anzi forse non ci perdonerebbero un nuovo lavoro fatto seguendo schemi già rodati.
Come vorresti fosse recepito il vostro disco e cosa dobbiamo aspettarci in futuro?
L.B. Credo che questo disco viva all’interno di un’esperienza più vasta di quelle precedenti. Proprio perché c’è un libro e la parola ha preso una dimensione più rilevante. Penso infatti che libro e disco debbano essere vissuti all’interno di un’esperienza distinta ma comprensiva. Leggere solo il libro o ascoltare solo il disco si può, naturalmente. Ma mentre si ascolta o si legge non si può fare a meno di “pensare” che c’è anche un altro linguaggio che serpeggia sotto il testo, al di là della musica. Voglio dire che la “pensabilità” di Racconto d’inverno è nel corpus stesso dell’opera. E opera, mai come in questo caso, è fatta di parole e musica senza soluzione di continuità. Per quanto riguarda il futuro abbiamo già diverse idee, diversi progetti, ma non possiamo sapere quale sarà la prossima realizzazione.
Come ti sembra la situazione attuale del progressive italiano? Più in generale, ci sono altri gruppi o solisti che consideri interessanti?
L.B. Non seguo con continuità la scena, né rock né progressive. Sono molto isolato e essenzialmente ai margini. Non riesco ad ascoltare quasi nulla di nuovo. D’altronde sono alle prese in continuazione con la mia musica e le mie parole, e questo mi sembra già abbastanza. Comunque, per quello che ho potuto ascoltare, non mi sembra ci siano grandi novità in superficie. Per quanto riguarda invece la profondità di questo mare che è il progressive rock, sono certo che si muovono energie positive, molte intuizioni. Restano sotto, raramente riescono ad uscire allo scoperto, ma questo è il loro ruolo fondamentale. Comunque non ho nomi da fare, se questo volevi, né di gruppi, né di solisti.
Che rapporto avete con la rete? Pensi che Internet possa aiutare la diffusione di una certa musica alternativa che fatica a farsi conoscere?
L.B. Può dare una mano, indubbiamente. Ma non ritengo che questo sia essenziale. Più che altro può aiutare a mettere in contatto i “dispersi della rete”, come mi piace definirli. Perché secondo me la rete esiste in quanto la nostra è una società disintegrata, spaccata, isolata. Di qui la sua necessità. Non possiamo infatti dimenticare che si tratta di rete virtuale, che la vera formula che esprime il nostro tempo è quella di “solitudine globalizzata”.
Ci sono a breve appuntamenti dal vivo degli Arpia che vorresti segnalare a chi vi segue?
L.B. Tra gli altri appuntamenti mi piace ricordare quello del 18 luglio per la Notte Bianca di Arcevia, nelle Marche, ed esattamente al Teatro Misa, un vero e proprio gioiello settecentesco. Inoltre il 24 luglio saremo a Roma, al Funnel Club a Via Ostiense. Infine l’8 agosto a Pico Farnese, al Castello Medievale. Ma spero che ci siano parecchie altre occasioni di conoscere ed incontrare tutti coloro che ci seguono con affetto. Intanto volevo ringraziarti per la sensibilità che hai dimostrato e che continui a dimostrare nei confronti di Arpia e, più in generale, per le realtà che si muovono nel panorama della musica e dell’arte italiane.
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